Amministrativo

Cittadinanza iure sanguinis, per l’esecuzione delle decisioni non è necessario il certificato di passaggio in giudicato

Nota a Corte di Cassazione, Sez. I Civile, Ordinanza 31 gennaio 2025, n. 2281

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di Alberto Lama*

La vicenda all’esame della Suprema Corte

Con ordinanza ex. art. 702 bis e ss. c.p.c. una cittadina italo-brasiliana era stata riconosciuta cittadina italiana per discendenza (iure sanguinis) dal Tribunale di Roma, il quale aveva ordinato all’ufficiale di stato civile competente di procedere con il facere burocratico affinché la stessa potesse esercitare i diritti (ed i doveri) legati allo status di cittadina italiana. Tale cittadina, peraltro, si era trasferita in Italia a seguito della suddetta decisione, insieme al figlio minorenne ed al marito.

Tuttavia, l’Ufficiale di stato civile rifiutava di adempiere all’ordine emesso dal Tribunale di Roma in quanto non accompagnato dall’attestazione di passaggio in giudicato ex art. 124 disp. att. c.p.c., non essendo all’uopo sufficiente neanche l’attestazione di non proposto appello da parte della Corte di Appello di Roma. Avverso tale decisione, la cittadina si rivolgeva prima al Tribunale di Treviso e successivamente alla Corte di appello di Venezia i quali con motivazioni sostanzialmente analoghe rigettavano la domanda giudiziaria sul presupposto che la decisione emessa dal Tribunale di Roma non avesse immediata attitudine a modificare la realtà giuridica e che, in ogni caso, l’unica maniera per poter provare il giudicato della decisione era la presentazione del certificato di cui all’art. 124 disp. att. c.p.c. 

Tuttavia, l’ottenimento di tale documento presupponeva il rispetto di una serie di termini processuali, di tempi burocratici, di adempimenti preliminari (inter alia, il pagamento dell’imposta di registro, previo ottenimento del codice fiscale) che costringevano la ricorrente, pur cittadina italiana in virtù di decisione giudiziale, a vivere per molti mesi nel territorio italiano come cittadina “fantasma, senza poter accedere al servizio sanitario nazionale (né lei e né il figlio minorenne), senza possibilità di accedere al mercato del lavoro (pur avendo ricevuto offerte di lavoro) e senza poter esercitare alcun tipo di altro diritto relativo allo status di cittadina. Ottenuto, infine, il documento richiesto dall’Ufficiale di stato civile e venuta meno la materia del contendere, tale cittadina ricorreva comunque innanzi alla Suprema Corte per il principio della soccombenza virtuale. La Suprema Corte, con la sent. 2281/2025 del 31.01.2025, ha cassato senza rinvio la decisione impugnata, ritenendola illegittima (alla stregua della decisione di primo grado e di quella dell’Ufficiale di stato civile) ed ha condannato l’Amministrazione (individuata nel Ministero dell’Interno per il grado di legittimità ed il Comune, impropriamente costituitosi, per tutti i gradi di giudizio) al pagamento delle spese processuali, quantificate complessivamente in ca. 12 mila Euro.

Le motivazioni della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha ritenuto illegittima la decisione impugnata (e conseguentemente la decisione di primo grado e quella dell’Ufficiale di stato civile) perché ha ingiustamente considerato necessaria la presentazione del certificato di passaggio in giudicato ex art. 124 disp. att. c.p.c. per l’esecuzione della decisione che aveva accertato lo status di cittadina (e ordinato il conseguente facere burocratico).

A tal riguardo, la Corte ha chiarito che la prova del passaggio in giudicato, quantunque sia ritenuto necessario, non è data dalla produzione del certificato ex art. 124 disp. att. c.p.c. (come erroneamente sostenuto dall’Ufficiale di stato civile e confermato dai giudici di primo e secondo grado) bensì da qualsiasi mezzo o elemento che dimostri che non sussistano motivi ostativi al passaggio in giudicato della decisione che si vuole eseguire (e, dunque, l’inutile spirare dei termini processuali per la proposizione delle impugnazioni ordinarie).

Ed invero per la Corte né il tenore letterale né la ratio legis dell’art. 124 disp. att. c.p.c. permettono una diversa lettura.

A tal riguardo, gli Ermellini precisano che le pronunce di legittimità che sembrano richiedere tale certificazione (tra cui le citate sentenze Cass. n. 9746/17 e Cass. n. 36258/23) si riferiscono solo alla diversa ipotesi in cui sia necessario provare il giudicato esterno.

In questa maniera la Suprema Corte ha ritenuto assorbito il diverso motivo di impugnazione relativo all’immediata esecutività delle decisioni che ordinano un facere burocratico a seguito dell’accertamento dello status di cittadino italiano (già oggetto di svariate pronunce della giurisprudenza di merito tra cui: decr. Trib. Genova del 25.02.2022; decr. Trib. Savona del 14.06.2024; decr. Trib. Savona del 04.07.2024), sebbene abbia citato nel corpo della decisione tutte le motivazioni che sostenevano tale tesi e sebbene abbia ritenuto soccombente l’Amministrazione in tutti i gradi di giudizio (escludendo espressamente la “reciproca soccombenza” dichiarata in grado di appello).

Un ulteriore aspetto particolarmente significativo della pronuncia riguarda la corretta individuazione del legittimato passivo nelle cause per l’adempimento dell’ordine di trascrizione contenuto nelle decisioni che riconoscono lo status civitatis. La Corte ha confermato che il soggetto legittimato passivo in questa tipologia di casi è il Sindaco nella sua qualità di ufficiale dello stato civile ed organo del Ministero dell’Interno, e non in qualità di rappresentante del Comune come ente territoriale. Questa distinzione non è meramente formale, ma ha importanti conseguenze pratiche in quanto la costituzione del Comune al posto del Sindaco quale ufficiale di stato civile è stata ritenuta frutto di “autonoma e non corretta valutazione della legittimazione passiva”, con conseguente condanna alle spese processuali per l’indebita (e reiterata) costituzione in giudizio.

L’impatto della decisione della Suprema Corte

La pronuncia in parola riveste particolare importanza pratica nell’ambito delle cause di riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis, dove la rapida esecuzione del facere burocratico ordinato dal Giudice (la trascrizione degli atti di stato civile) è fondamentale per consentire ai ricorrenti di godere effettivamente dei diritti (e dei doveri) connessi allo status di cittadino italiano. Ne è un esempio il caso di specie in cui una cittadina italiana a tutti gli effetti (e il di lei figlio minorenne, anch’egli peraltro cittadino italiano) è stata illegittimamente privata per molti mesi di ogni diritto relativo allo status di cittadina (ivi compresa l’accesso al sistema sanitario ed al mondo del lavoro), pur di fronte ad un ordine giudiziale chiaro, preciso ed incondizionato.

Il principio affermato dalla Corte di Cassazione appare altresì suscettibile di applicazione analogica anche alle sentenze pronunciate a seguito del procedimento semplificato di cognizione introdotto dalla riforma “Cartabia ovvero a seguito del procedimento ordinario di cognizione. Infatti, il ragionamento sviluppato dalla Suprema Corte può essere ragionevolmente esteso anche a tali provvedimenti con cui, a seguito della riforma “Cartabia”, i procedimenti in materia di cittadinanza italiana iure sanguinis vengono ora definiti.

In conclusione, la pronuncia della Suprema Corte ancora una volta sottolinea la necessità di porre al centro della materia della cittadinanza italiana iure sanguinis l’elemento normativo, rifuggendo da fuorvianti letture burocratiche extra legem che ledono ingiustamente l’esercizio di un diritto fondamentale nella vita di ciascun individuo. A tal riguardo, non più tardi di qualche mese fa, la Suprema Corte (sent. 14194/2024) era già intervenuta per sottolineare che la prova della filiazione nei procedimenti iure sanguinis non è legata necessariamente alla produzione dell’atto di nascita (come pure sostenuto dall’Amministrazione), dato che lo stesso Codice civile ammette e promuove una pluralità di mezzi di prova alternativi. Con lo stesso approccio, oggi torna a sottolineare che l’Amministrazione non può condizionare l’adempimento di un ordine giudiziale alla produzione di documenti non richiesti dalla legge e che si frappongono illegittimamente tra il cittadino e l’esercizio dei diritti relativi allo status civitatis, tanto più quando esso sia stato riconosciuto giudizialmente.

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