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Corte Ue, pene proporzionali: troppi cinque anni per la contraffazione dei marchi

Con la sentenza nella causa C-655/21, i giudici di Lussemburgo affermano che la normativa bulgara è contraria al diritto dell’Unione laddove prevede cinque anni di reclusione come pena minima

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di Francesco Machina Grifeo

È sproporzionata una pena minima di cinque anni di reclusione per la contraffazione di un marchio registrato. Lo ha afferma la Corte Ue, sentenza nella causa C-655/21, relativa ad un caso bulgaro.

Il caso - Le autorità bulgare a seguito di un controllo in un locale commerciale locato da una impresa di abbigliamento avevano constatato che i segni apposti sui prodotti erano simili a marchi già registrati. A quel punto il commerciante è stato chiamato a rispondere per l’uso dei marchi senza il consenso dei titolari. La normativa bulgara prevede disposizioni che definiscono la stessa condotta tanto come reato quanto come illecito amministrativo.

Il giudice a sua volta ha chiesto alla Corte di giustizia chiarimenti sulla compatibilità con il diritto dell’Unione della normativa interna sulla contraffazione in considerazione della severità delle sanzioni previste e del fatto che la mancanza di criteri chiari e precisi di qualificazione come reato o come illecito amministrativo condurrebbe a prassi contraddittorie e a una disparità di trattamento.

La normativa italiana - Resta sotto soglia la legge italiana che all’articolo 473 del codice penale (Contraffazione, alterazione o uso di marchio segni distintivi ovvero di brevetti, modelli e disegni) punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni, e con la multa da euro 2.500 a euro 25.000, “Chiunque, potendo conoscere dell’esistenza del titolo di proprietà industriale, contraffà o altera marchi o segni distintivi, nazionali o esteri, di prodotti industriali, ovvero chiunque, senza essere concorso nella contraffazione o alterazione, fa uso di tali marchi o segni contraffatti o alterati”.

E all’articolo 474 Cp punisce con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a euro 20.000, “chiunque detiene per la vendita, pone in vendita o mette altrimenti in circolazione, al fine di trarne profitto”, prodotti industriali con marchi o altri segni distintivi, nazionali o esteri, contraffatti o alterati.

La motivazione della Cgue - In primo luogo, la Corte di Lussemburgo ricorda che la contraffazione di un marchio può essere qualificata dal diritto nazionale tanto come illecito amministrativo quanto come reato. Ad ogni cittadino tuttavia deve essere fornita la possibilità di capire con facilità quale condotta integri una responsabilità penale.

In secondo luogo, la Corte considera che una disposizione nazionale la quale, in caso di contraffazione di un marchio ripetuta o con effetti gravemente dannosi, prevede una pena minima di cinque anni di reclusione è contraria al diritto dell’Unione. La Corte precisa che la direttiva sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale non si applica in materia penale (accordo ADPIC/TRIPS 2), ma gli stati membri possono imporre una pena detentiva per alcuni atti di contraffazione di marchi.

Certamente, conclude la nota della Corte, in assenza di misure legislative a livello europeo, gli Stati Ue restano competenti a determinare la natura e l’entità delle sanzioni applicabili. Tuttavia, tali misure repressive devono essere proporzionate. Orbene, la previsione di una pena minima di cinque anni di reclusione per tutti i casi di uso non consentito di un marchio nel commercio non soddisfa tale imperativo. Una tale normativa infatti non tiene conto delle eventuali specificità delle circostanze in cui i reati sono commessi.

La giurisprudenza della Cassazione - Tornando all’Italia, secondo il recente orientamento della Cassazione (sentenza n. 31836/2020) l’articolo 474 c.p. “tutela non già la libera determinazione dell’acquirente, bensì la fede pubblica, a nulla rilevando che le condizioni di vendita del prodotto siano tali da escludere la possibilità per gli acquirenti di esser tratti in inganno”.

Mentre con la sentenza n.35235 del 2022, la V Sezione penale ha affermato che “ integra il delitto di cui all’articolo 473 c.p., ovvero quello di cui all’articolo 474 c.p., la contraffazione di marchi celebri pur se apposti su prodotti appartenenti a un settore merceologico diverso da quello tradizionale posto che il bene della fede pubblica è leso dalla confondibilita’, secondo il giudizio del consumatore medio, del marchio originale con quello contraffatto, quand’anche utilizzato in ambiti non tradizionali per effetto di attivita’ di “merchandising”, non costituendo tale circostanza, di per se’ sola, motivo di sospetto (nella specie, si trattava di marchi di case automobilistiche apposti su capi di vestiario e “gadget”).

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