La Corte di Cassazione esclude l'elusività di una cessione di partecipazioni rivalutate finanziata con i dividendi distribuiti dalla società partecipata
Nota all'Ordinanza del 6 novembre 2020, n. 24839
Con l'ordinanza del 6 novembre 2020, n. 24839, la Corte di Cassazione si è pronunciata su una contestazione di elusività di una cessione di partecipazioni con costo fiscale rideterminato dietro pagamento di imposta sostitutiva posta in essere pochi giorni prima di una distribuzione di dividendi già deliberata dalla società partecipata.
La Suprema Corte da un lato ha rigettato il ricorso dell'Agenzia delle Entrate accogliendo le eccezioni del contribuente sulla sussistenza di valide ragioni extra-fiscali tali da giustificare altrimenti l'operazione rispetto al mero conseguimento di un risparmio d'imposta, e dall'altro lato non solo ha affermato in via di obiter dictum che il conseguimento del vantaggio fiscale sotteso alla rivalutazione delle partecipazioni è legittimo e dunque non può considerarsi come disapprovato dal sistema, ma ha anche lasciato intendere che l'Amministrazione finanziaria non può contestare per la prima volta in giudizio l'applicazione della norma antielusiva dopo aver emesso un avviso di accertamento che ha fondato sulla violazione di norme sostanziali, rappresentando tale comportamento una illegittima mutatio libelli.
Da quanto è dato comprendere dalla rappresentazione dei fatti di causa, la fattispecie verteva su una complessa operazione societaria, consistente nella vendita da parte di una persona fisica di azioni con costo fiscale rideterminato ad una società di capitali cessionaria la quale, a sua volta, era stata interamente ceduta ad un'altra società. La cessione delle partecipazioni era avvenuta pochi giorni prima della distribuzione dei dividendi, già deliberata, e per un corrispettivo di importo pari ai dividendi stessi. Inoltre, tale corrispettivo era stato versato dalla cessionaria non appena ricevuto il pagamento dei dividendi.
Con l'avviso di accertamento l'Agenzia delle Entrate recuperava a tassazione le «plusvalenze conseguite da cessione di quote azionarie in società estere, per il complessivo importo di Euro 4.253.579,00», salvo poi in sede di giudizio di primo grado ricostruire «la vicenda diversamente da come contestata con l'atto impositivo» e ricondurre le modalità dell'operazione «nell'alveo dell'abuso del diritto, per essere finalizzate esclusivamente al conseguimento di un risparmio d'imposta, ottenuto con il pagamento dell'imposta sostitutiva sulla rivalutazione delle partecipazioni azionarie, eludendo così il pagamento delle imposte sui dividendi, formalmente non percepiti, ma di fatto corrispondenti al prezzo di cessione a terzi delle medesime azioni». In particolare, l'Agenzia delle Entrate aveva considerato come indice di elusività le tempistiche dell'operazione, poiché la cessione delle partecipazioni era avvenuta due giorni prima della distribuzione dei dividendi, e le modalità di pagamento del corrispettivo, versato in corrispondenza della distribuzione dei dividendi e formulato ricorso per cassazione al fine di vedere confermata la sua ripresa a tassazione.
In tale contesto interpretativo, i giudici di legittimità non hanno accolto la tesi erariale, osservando in primo luogo come in materia tributaria è «configurabile l'abuso del diritto nell'operazione che abbia quale suo elemento predominante ed assorbente lo scopo di eludere il fisco, ossia quella che non abbia una giustificazione economica apprezzabile differente dall'intento di conseguire un risparmio di imposta (cfr. Cass., 869/2019)», pertanto «il carattere elusivo, sotto il profilo fiscale, di una determinata operazione, si fonda normativamente sul difetto di valide ragioni economiche e sul conseguimento di un indebito vantaggio fiscale, sicché il divieto di comportamenti abusivi non vale ove quelle operazioni possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi di imposta, poiché va sempre garantita la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti anche un differente carico fiscale (Cass., 439/2015; cfr. anche 3938/2014 )».
Ad avviso della Suprema Corte, infatti, nel caso di specie «emerge con chiarezza che il R. non ha solo conseguito un cd. risparmio d'imposta, ma ha definitivamente ceduto alla Inta s.r.l., mediante cessione della Sarago s.a., il 5,27% delle azioni del capitale della Fin2001», con la conseguenza che non può trattarsi di un'ipotesi di «"dividend washing", che richiede una doppia cessione delle partecipazioni sociali, con la restituzione dei titoli al precedente cedente, laddove nel caso di specie le azioni sono state vendute effettivamente e sono uscite definitivamente dalla disponibilità del R.». Dunque, «alla luce delle considerazioni appena svolte la denunciata sospetta tempistica delle cessioni dei pacchetti azionari poco prima della distribuzione dei dividendi, e con pagamento dei corrispettivi al momento della distribuzione ai cessionari dei dividendi medesimi, può costituire una scelta, anche singolare, ma di certo non collegabile assiomaticamente, come preteso, ad un esclusivo intento elusivo dell'intera operazione di cessione delle partecipazioni societarie. Ne discende che la motivazione della sentenza non ha tenuto conto dei principi elaborati nella giurisprudenza di questa Corte al fine della individuazione di operazioni abusive finalizzate al perseguimento di un esclusivo intento elusivo».
Peraltro, secondo la Corte neppure può ritenersi indebito il vantaggio fiscale conseguito dal contribuente, poiché è proprio la disciplina agevolativa della rivalutazione delle azioni con versamento dell'imposta sostitutiva «a consentire il conseguimento di vantaggi fiscali, sicché, in presenza di operazioni di cessione effettive e non fittizie di un pacchetto azionario, per l'appunto alla Inta s.r.l., non appare chiaro del come e del perché l'accesso a quella opzione fiscale agevolata abbia potuto rappresentare "l'indispensabile presupposto del complessivo meccanismo abusivo, architettato dal R. e teso a nascondere la sua effettiva capacità contributiva"».
Infine, va rilevato come la Suprema Corte sottolineando il fatto che «con l'avviso di accertamento si era denunciato proprio il mancato versamento delle imposte per plusvalenze non dichiarate a seguito della cessione delle azioni» e che «a contenzioso già iniziato, l'Amministrazione ha mutato la contestazione (circostanza inspiegabilmente mai contestata dal contribuente) in quella di abuso del diritto e di condotta elusiva, sostenendo che quella rivalutazione era una delle operazioni collegate alla vendita dei titoli per scopi solo elusivi», sembra implicitamente affermare che non è consentito all'ente impositore contestare l'abuso del diritto solo in corso di giudizio, ove non ve ne sia traccia nella motivazione dell'avviso di accertamento notificato al contribuente.
L'approdo cui giungono i giudici di legittimità in tema di elusione appare condivisibile sotto tutti e tre i profili analizzati e l'affermazione di tali principi assume grande rilevanza con riferimento alle contestazioni, come quella di specie, volte nella sostanza a ritenere che se il prezzo della cessione è finanziato mediante dividendi distribuiti dalla società compravenduta agli effetti fiscali l'operazione dà luogo ad un recesso tipico, come tale produttivo di redditi di capitale di cui alla lett. e) dell'art. 44, comma 1, del TUIR, derivanti dalla liquidazione della partecipazione al capitale sociale ed imponibili ai sensi del comma 7 del successivo art. 47, e non ad una cessione a titolo oneroso produttiva di plusvalenze imponibili come redditi diversi, affrancabile mediante il pagamento dell'imposta sostitutiva per la rideterminazione del costo fiscale delle partecipazioni, la quale determina e con una riduzione del carico fiscale alle aliquote di oggi dal 26 per cento all'11 per cento e dunque un risparmio per il contribuente del 57 per cento.
Un esempio di tale tendenza è rinvenibile nella risposta ad interpello n. 341/2019, laddove l'Agenzia delle Entrate ha ritenuto abusiva un'operazione finalizzata al passaggio generazione di una società mediante la rivalutazione delle partecipazioni dei soci di prima generazione, la successiva cessione ad una newco partecipata dai soli soci di seconda generazione ed, infine, la fusione della newco con la società di partenza, che all'esito delle operazioni viene ad essere detenuta soltanto dai soci di seconda generazione.
A parere dell'Agenzia, tale operazione, essendo finalizzata ad aggirare le disposizioni fiscali in materia di recesso tipico, che non consentono di beneficiare del regime della rivalutazione, sarebbe da considerare elusiva. Senonché, secondo l'interpretazione in commento fornita dalla Corte di Cassazione, un tale assunto non risulta condivisibile se si tiene conto del fatto che l'operazione oggetto di interpello avrebbe avuto come esito il trasferimento delle partecipazioni dai soci di prima generazione a quelli di seconda generazione, e ciò in conformità con la ratio del regime della rivalutazione di favorire la circolazione delle quote perseguendo un lecito risparmio d'imposta e consentendo comunque all'erario di anticipare l'incasso dell'imposta sostitutiva rispetto alla manifestazione del presupposto di imposta, e cioè l'effettivo pagamento in favore del cedente del corrispettivo pattuito per la cessione.
Del resto, come ha correttamente affermato la giurisprudenza in rassegna, l'utilizzo dei regimi fiscali agevolativi introdotti dal legislatore non può essere messo in discussione solamente per il fatto che consente ai contribuenti di ottenere un vantaggio fiscale. Il perseguimento di un legittimo risparmio d'imposta è principio riconosciuto e valorizzato dall'ordinamento giuridico. Pertanto, non dovrebbero trovare spazio contestazioni circa la scelta di raggiungere determinati obiettivi economici mediante comportamenti che, pur essendo meno onerosi a livello fiscale, hanno pari dignità sul fronte tributario.
Infine, la sentenza in esame appare condivisibile anche sotto l'ulteriore profilo della censura nei confronti della mutatio libelli operata dall'Amministrazione finanziaria, sebbene tale questione non sembra abbia formato oggetto di ricorso da parte del contribuente. Ed infatti, solo a contenzioso già iniziato è stata contestata la presunta elusività delle operazioni poste in essere dal contribuente.
Senonché, come correttamente rilevato dai giudici di legittimità, deve ritenersi illegittima la pretesa di riscrivere o di emendare la motivazione dell'avviso di accertamento impugnato dopo che questo è stato notificato. Si tratta di un principio già ampiamente ribadito dalla Suprema Corte, secondo cui «le ragioni poste a base di un atto impositivo non possono essere oggetto di modifica e/o di integrazione durante la fase contenziosa, in quanto la difesa del ricorrente si concentra su quanto illustrato nella motivazione» (così ex multiis la sentenza 11466/2018).
*di Andrea Merolle e Valentina di Marco Giordano|Merolle – Studio Legale Tributario
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