LA LETTURA - «Ispezioni della terribilità», Sciascia e l'«ossessione» della Giustizia
Nel volume curato da Zilletti e Scuto, l'Associazione amici di Leonardo Sciascia e l'Unione delle Camere Penali conducono un viaggio negli abissi di un sistema tanto "terribile" quanto "necessario"
L'«ossessione» per il giudicare e per i suoi inevitabili errori, favoriti dal perenne squilibrio di forze tra accusato e accusatore, ispira il saggio collettaneo «Ispezioni sulla terribilità, Leonardo Sciascia e la giustizia» a cura di Lorenzo Zilletti e Salvatore Scuto, per i tipi di Leo S. Olschk (pagg. 284, XXVI illustrazioni). Un pozzo di informazioni - anche storiche, bibliografiche e letterarie - frutto della analisi di esperti giuristi ma godibile anche dai non addetti ai lavori. Il volume nasce dal felice incontro tra l'Associazione amici di Leonardo Sciascia e l'Unione delle camere penali, impegnate tra il settembre del 2020 e il giugno del 2021 in una serie di feconde Letture ‘sciasciane', intitolate alla memoria del giornalista Massimo Bordin. Si parte dall'assunto che il volto feroce della giustizia non appartiene ad epoche remote ma è realtà presente. Ogni capitolo si compone intorno a una frase lapidaria che spinge il lettore a riflettere - «Si è mai posto il problema del giudicare? Sempre» - e al contempo funge da traccia per la competente pattuglia di avvocati e giuristi.
«Terrificante è sempre stata l'amministrazione della giustizia, e dovunque. Specialmente quando fedi, credenze, superstizioni, ragion di Stato o ragion di fazione la dominano o vi si insinuano». Il passaggio che lascia ben poche speranze (incipit del VI Capitolo) è tratto da «La strega e il capitano», il libro del 1986, in cui Sciascia ricostruisce scrupolosamente la condanna al rogo di Caterina Medici (nel 1617 a Milano) fantesca nella casa del senatore e consultore della Santa Inquisizione Luigi Melzi, considerata responsabile dei suoi strani dolori di stomaco e per questo bruciata. La rievoca Salvatore Scuto ponendo la eterna questione del «rapporto tra il senso assoluto della giustizia e la realizzazione che di essa fanno le leggi». Il Senato e la Curia, afferma, non cercavano la verità ma piuttosto un mostro che si attagliasse alla figura dell'indemoniato e fungesse da monito per la popolazione.
Paolo Borgna ragiona su una frase de il "Contesto", romanzo di svolta sull'errore del giudicare, in cui un personaggio dice: «Sì ero innocente. Ma che vuol dire essere innocente, quando si cade nell'ingranaggio? Niente vuol dire. Glielo assicuro». Uno sgomento quello per gli errori giudiziari irreparabili nascosti da formule perentorie, scrive Marco Nicola Miletti, che gli veniva da Montaigne. Del resto, argomenta Gaetano Insolera, se il giudice è come il prete che celebra messa, Sciascia ha buon gioco a dire: «la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi», ed allora nessuna sentenza può aver mai «macchiato la toga».
Più in generale, a inquietare Sciascia, non solo con riguardo alla storia passata ma anche a lui contemporanea (si pensi al caso Tortora o la "fermezza" delle istituzioni nel caso Moro), è la legittimità giuridica di cui gode la violenza punitiva dello Stato. Così, per Pietro Costa questa "vertiginosa coincidenza" induce Sciascia a ritenere la giustizia l'espressione più emblematica del potere. E ammantandolo di sacralità lo rende intangibile e indifferente alle ragioni dell'individuo. Un potere che accetta soltanto le "sembianze" del cambiamento per rimanere sempre uguale a sé stesso, in una sorta di ‘fascismo eterno'.
In una intervista a Marcelle Padovani degli anni ‘80, Sciascia ricorda la propria infanzia sotto il Regime: «Quel che mi inquietava - dice -, quel che per me era un vero e proprio trauma, era la morte attraverso la sentenza, la morte attraverso la scrittura…». E nel "Cavaliere e la morte" scriveva: "la pena di morte non ha niente a che fare con la legge, è un consacrarsi al delitto, un consacrare il delitto". Mentre Salvatore Satta ammoniva: «La realtà è che chi uccide non è il legislatore ma il giudice». Tutto bene dunque considerato che ora la pena di morte è stata espunta (dal 2007 anche dal codice penale militare) dal nostro ordinamento? Non proprio, la pena capitale infatti riaffiora almeno come concetto, nell'ergastolo ostativo, per via della sua precipua finalità: espungere definitivamente il reo dalla società. Per Andrea Pugiotto così si realizza "un atto di fede verso un ordinamento infallibile".
E sulle storture del pentitismo Sciasca acutamente osserva: "Il far nome di sodali, di complici, è stato sempre dai giudici inteso come un passar dalla loro parte», eppure quanti abbagli seguendo questa convinzione! È implacabile sulla banalità del male: «Di brav'uomini è la base di ogni piramide di iniquità». In questo senso, è per lui magistrale la «Storia della Colonna infame» del Manzoni, pamphlet largamente incompreso. Sciascia si scaglia contro ogni indulgenza retrospettiva verso i magistrati del cd. processo agli untori (c'è chi ha sostenuto: «l'istruttoria si era svolta in circostanze difficilissime"). Ciò che fa tremare, scrive tracciando un parallelo coi gerarchi nazisti, è proprio il fatto che quei giudici «"erano onesti e intelligenti" quanto gli aguzzini nazisti di Rohmer "erano buoni padri di famiglia, sentimentali, amanti della musica, rispettosi degli animali"».
E ancora, in risposta a Claude Ambroise: «Tutto è legato, per me, al problema della giustizia: in cui si involge quello della libertà, della dignità umana, del rispetto tra uomo e uomo». In questo senso è esemplare, come scrive Ricciarda Ricorda, il caso del magistrato racalmutese Salvatore Petrone che ha sacrificato la carriera per non mandare un uomo davanti al plotone di esecuzione. A lui è ispirata la figura del "piccolo giudice" di «Porte aperte». Il magistrato diventa una figura positiva solo quando si oppone al sistema di cui è parte. Ed allora la scelta del ruolo di giudicante diventa ammissibile in quanto necessaria ma deve comunque partire dalla «ripugnanza a rivestirlo, dall'accedervi come una dolorosa necessità nel continuo sacrificarsi all'inquietudine del dubbio come capita appunto al piccolo giudice».
Infine, ricorda Vincenzo Maiello, siamo tutti debitori a Sciascia della introduzione nel lessico di concetti conformi allo stato di diritto: dignità dell'accusato, legalità dei reati, presunzione di innocenza, in dubio pro reo ma anche della imparzialità del giudice e soprattutto della umanità della pena. Mentre alla società resta un obbligo di controllo sull'operato dei giudici perché la "delega…non è eterna" e la "professionalità non è così assoluta e invalicabile".
«Per me, terra terra – sintetizzava Sciascia in un convegno del 1986 -, il problema è questo: ci sono dei cittadini che, conseguita una laurea in legge, fatto un concorso e vintolo, assumono un potere che nessun altro cittadino, in eguali condizioni, dentro altre amministrazioni, ha sui propri simili».
È questa una minima parte dei tesori contenuti in un libro che sarebbe un perfetto viatico per ogni magistrato in erba.
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«Ispezioni sulla terribilità, Leonardo Sciascia e la giustizia»
Curatore: Lorenzo Zilletti, Salvatore Scuto
Editore: Olschki
Anno edizione: 2023 In commercio dal: 27 gennaio 2023
Pagine: 296 p., XXVI illustrazioni , Brossura