Lavoro

Whistleblowing: effettività delle garanzie contro il licenziamento ritorsivo e onere probatorio in capo al datore

Riflessioni a margine della sentenza del Tribunale di Milano n. 1680/2025

di Massimo Riva, Alessandro Murru*

La recente sentenza del Tribunale di Milano del 6 Giugno 2025, n. 1680 offre una preziosa occasione per riflettere su alcuni degli aspetti più delicati relativi alla recente disciplina in materia di whistleblowing: la tutela del segnalante, l’effettività delle garanzie contro il licenziamento ritorsivo e l’onere probatorio a carico del datore di lavoro.

Il caso posto al vaglio del Giudice meneghino riguarda un licenziamento intimato pochi giorni dopo l’invio di una segnalazione whistleblowing e si conclude con la reintegrazione del lavoratore, a conferma della piena tutela accordata dall’ordinamento a chi esercita in buona fede il diritto di denuncia.

I fatti di causa

Il ricorrente era stato assunto con contratto a tempo indeterminato a far data dal 16 Gennaio 2023, con inquadramento nel 1° livello del CCNL del settore Terziario e job title di “Wholesale & Key Account Manager”, operando presso la sede aziendale di Milano e occupandosi, tra l’altro, della gestione dei rapporti con la rete agenti, della formazione del personale commerciale, nonché delle attività di vendita diretta e analisi delle performance dei clienti.

Fin dai primi mesi di attività, aveva avuto un rapporto difficile con la propria responsabile gerarchica, lamentando un atteggiamento fortemente limitativo della propria autonomia decisionale e gestionale, con ripercussioni tanto sul piano relazionale quanto sull’efficacia operativa del ruolo.

Tali criticità erano già emerse tra Marzo e Aprile 2024, nell’ambito di un “Global Survey” – un questionario promosso dalla società capogruppo con l’obiettivo di monitorare il clima aziendale – nel quale il lavoratore aveva manifestato una chiara insoddisfazione rispetto al rapporto con la propria responsabile diretta, segnalando in particolare una “assenza di fiducia” e una “mancanza di autonomia” quali elementi di maggiore criticità.

Sebbene formalmente anonimo, detto questionario richiedeva l’indicazione della sede di lavoro e del dipartimento di appartenenza.

Considerato che, all’epoca dei fatti, il team commerciale della sede di Milano era composto da sole tre persone, tra cui il ricorrente, risultava agevole – anche in assenza di dati identificativi diretti – risalire al contenuto della valutazione espressa da ciascun partecipante, con particolare riferimento a quella negativa tramessa dal ricorrente stesso.

Tale circostanza trovava conferma nel fatto che, nei primi giorni di Aprile 2024, nel corso di una riunione presso la sede di Milano, la responsabile aveva dichiarato espressamente al ricorrente di essere venuta a conoscenza del contenuto della survey e della valutazione critica formulata dal lavoratore.

Da quel momento, secondo quanto emerso in giudizio, i rapporti tra i due si erano ulteriormente deteriorati, culminando – a distanza di circa due settimane – nella presentazione di una segnalazione formale attraverso il Whistleblower Channel interno, con la quale il lavoratore denunciava condotte disfunzionali, ostilità professionale e gravi carenze organizzative nella gestione dell’area commerciale, riconducendo tali dinamiche alla condotta della sua superiore gerarchica.

L’escalation si era poi concretizzata, nella prima metà del mese successivo, con la trasmissione al dipendente di una lettera di contestazione disciplinare, contenente una serie di addebiti estremamente generici, ovvero:

un asserito scarso presidio territoriale e una gestione “più amministrativa che commerciale” della rete vendite;

la mancata organizzazione di attività formative presso “alcuni clienti”;

l’esclusione della superiore gerarchica da alcuni incontri con partner commerciali;

contatti inefficaci con i potenziali clienti;

carenze nella gestione della rete agenti, senza alcuna specificazione ulteriore;

“atteggiamento passivo” rispetto alle campagne marketing aziendali;

e, come unico episodio specifico, l’omesso aggiornamento alla responsabile in occasione di una visita a due clienti nelle Marche.

La disattivazione della casella e-mail aziendale e la richiesta di restituzione degli strumenti di lavoro erano state disposte contestualmente alla contestazione, anticipando di fatto la decisione datoriale di interrompere il rapporto di lavoro.

Il licenziamento per giusta causa veniva infine comunicato a metà del mese di Maggio.

Di particolare rilievo, come emerso in giudizio, è il fatto che la società avesse già pubblicato un annuncio di selezione per la stessa posizione su LinkedIn prima ancora della contestazione disciplinare, elemento che – insieme alla estrema genericità e irrilevanza disciplinare degli addebiti – ha indotto il Tribunale a qualificare il recesso come ritorsivo e nullo, per violazione dell’art. 1345 c.c. e, soprattutto, dell’art. 17 del D. Lgs. 24/2023.

Il licenziamento ritorsivo: inquadramento normativo e giurisprudenziale

Il licenziamento ritorsivo costituisce una species del più ampio genus dell’illiceità del motivo del recesso, connotato da un intento di rappresaglia.

Come noto, ai sensi dell’art. 1345 c.c., il motivo illecito determinante rende nullo l’atto unilaterale. La giurisprudenza ha costantemente ribadito che la prova del carattere ritorsivo grava in via ordinaria sul lavoratore, il quale deve dimostrare – anche mediante presunzioni – l’esistenza del motivo illecito e la sua incidenza esclusiva sulla decisione espulsiva.

In questo senso, la Corte di Cassazione (con sentenza n. 17087 dell’8 agosto 2011, n. 17087) ha già chiarito che l’onere della prova dell’esistenza di un motivo di ritorsione del licenziamento – nonché della sua incidenza determinante sulla volontà del datore di recedere – incombe sul lavoratore che lo deduce in giudizio. Secondo il Giudice di legittimità, si tratta di un onere probatorio particolarmente complesso, che può essere assolto anche attraverso presunzioni, tra le quali riveste rilievo la dimostrazione dell’assenza del motivo dichiarato a giustificazione del recesso o, comunque, di una plausibile ragione alternativa.

Nel caso di specie, il Tribunale è giunto a qualificare il licenziamento come ritorsivo e nullo, valorizzando l’applicazione dell’art. 17 del D. Lgs. 24/2023, che introduce un regime speciale di protezione rafforzata in favore del segnalante whistleblower.

L’art. 17 del D.Lgs. 24/2023: presunzione di ritorsione e inversione dell’onere della prova

Fino all’entrata in vigore del D. Lgs. 24/2023, la tutela del whistleblower era frammentata e limitata a determinati ambiti, come il pubblico impiego e alcune aree specifiche del settore privato.

Con il recepimento della Direttiva UE 2019/1937, il legislatore ha introdotto un sistema organico e generalizzato di protezione per i soggetti segnalanti, prevedendo una vasta gamma di misure di salvaguardia, tra cui la nullità degli atti ritorsivi e l’inversione dell’onere della prova.

In particolare, l’art. 17 del Decreto stabilisce una presunzione secondo cui ogni atto pregiudizievole (ad esempio licenziamento, sospensione o misure equivalenti, demansionamento, etc.) adottato dopo la trasmissione di una segnalazione si presume conseguenza diretta di essa, salvo che il datore di lavoro dimostri il contrario.

Questo meccanismo, che inverte l’onere della prova a favore del segnalante, rappresenta una significativa deviazione rispetto alla disciplina ordinaria (ossia quella normalmente applicabile ai rapporti di lavoro, in cui è il lavoratore a dover dimostrare l’illegittimità del provvedimento) e, pertanto, un trattamento più favorevole nei confronti dello stesso lavoratore.

Con l’entrata in vigore del D. Lgs. 24/2023, la salvaguardia del whistleblower è stata pertanto enormemente rafforzata e codificata, con un impatto pratico significativo: in caso di licenziamento successivo a una segnalazione, spetterà al datore di lavoro dimostrare l’esistenza di ragioni autonome, concrete e documentabili che fondano il provvedimento.

Nel caso esaminato nel presente contributo, la società non è riuscita a fornire alcuna evidenza concreta in grado di dimostrare l’esistenza di motivi autonomi, leciti e determinanti alla base del licenziamento comminato al ricorrente.

L’estrema genericità delle contestazioni, l’assenza di riferimenti specifici, l’estrema prossimità temporale tra la segnalazione e il recesso, l’avvenuta pubblicazione di un annuncio per la sostituzione del lavoratore, già prima della trasmissione della lettera di contestazione disciplinare, e la disattivazione anticipata degli strumenti di lavoro sono stati considerati tutti elementi convergenti verso una valutazione di ritorsività.

La sentenza in commento ha altresì valorizzato il principio secondo cui la protezione del segnalante prescinde dalla fondatezza della segnalazione stessa, purché formulata in buona fede e secondo le procedure previste.

In altri termini, ciò che rileva non è il merito della denuncia, ma l’esercizio di un diritto tutelato dall’ordinamento.

Tale approccio rafforza il valore del whistleblowing come strumento di compliance, contribuendo a costruire ambienti di lavoro più trasparenti e responsabili.

Per il datore di lavoro ne discende l’esigenza di trattare ogni segnalazione con estrema cautela e imparzialità, evitando qualunque azione che possa anche solo apparire ritorsiva.

Conseguentemente, l’adozione di procedure interne chiare, trasparenti e coerenti con le Linee Guida ANAC, unitamente alla formazione del management, rappresenta oggi un presidio fondamentale per prevenire contenziosi e sanzioni reputazionali.

La tutela applicata: reintegrazione e risarcimento

Accertata la nullità del licenziamento ai sensi dell’art. 1345 c.c. e dell’art. 17 D. Lgs. 24/2023, il Tribunale ha disposto l’applicazione della tutela reintegratoria piena di cui all’art. 2, comma 1, del D. Lgs. 23/2015, condannando il datore di lavoro alla reintegrazione del dipendente e al pagamento dell’intera retribuzione maturata medio tempore, oltre agli oneri contributivi.

Si conferma, dunque, l’orientamento secondo cui la violazione delle garanzie previste in favore del segnalante determina la nullità del licenziamento, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria piena, senza alcun limite al numero di mensilità da corrispondere a titolo risarcitorio.

Aspetti pratici: compliance aziendale e risk management

Dal punto di vista applicativo, la sentenza ricorda alle imprese di rivedere in modo critico le proprie prassi in materia disciplinare e di gestione delle segnalazioni.

L’adozione di canali interni efficaci, trasparenti e riservati, nonché la formazione del management sul divieto di ritorsioni, diventano – peraltro – strumenti imprescindibili di prevenzione del contenzioso e di compliance normativa.

Particolare attenzione va posta alla coerenza temporale tra le segnalazioni e l’eventuale avvio di procedimenti disciplinari, alla motivazione delle contestazioni, alla raccolta di evidenze documentali e all’eventuale assorbimento delle decisioni all’interno di più ampi processi di riorganizzazione o ridefinizione di ruoli.

In mancanza di tali elementi, l’atto espulsivo rischia di essere interpretato come strumento punitivo e, dunque, nullo.

Conclusioni

È indubbio che la sentenza in commento si inserisca nel solco di un’evoluzione normativa e giurisprudenziale orientata a rafforzare le tutele del lavoratore che segnala condotte illecite.

La decisione chiarisce, inoltre, che la protezione accordata al whistleblower non è subordinata alla fondatezza della segnalazione, bensì al corretto utilizzo dei canali previsti dalla normativa.

Il licenziamento ritorsivo è e resta un atto nullo, soggetto alla tutela reintegratoria piena, ma, in presenza di una segnalazione effettuata in buona fede, grava inesorabilmente sul datore di lavoro l’onere di dimostrare l’assenza di un nesso causale tra la segnalazione stessa e il provvedimento espulsivo adottato.

In un sistema che tende sempre più alla responsabilizzazione preventiva dei soggetti privati, il whistleblowing si configura come uno degli strumenti cardine della compliance organizzativa, e la sua corretta gestione costituisce – oggi più che mai – una cartina al tornasole della cultura aziendale in materia di trasparenza e diritti.

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*Massimo Riva, Avvocato, Associate Partner, Rödl & Partner e Alessandro Murru, Dottore in Giurisprudenza, Junior Associate, Rödl & Partner

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