Penale

App fa sparire gli atti dei PM: la Procura di Milano consente il deposito cartaceo

Una volta vistati dal procuratore aggiunto, gli atti non tornano più nella disponibilità del Pm che li aveva inviati

di Carmelo Minnella

Da due settimane gli atti del ministero della Giustizia spariscono nei meandri di App, l’applicativo per il processo penale telematico dei magistrati, giudicanti e requisenti. Il software del ministero mostra, infatti, un nuovo bug: le richieste dei Pm vengono divorate dal sistema. Quando i pubblici ministeri trasmettono gli atti (il cui deposito deve avvenire solo telematicamente) per cui è necessario il visto dei procuratori aggiunti – richieste di archiviazione, di rinvio a giudizio, di giudizio immediato, citazioni dirette a giudizio – una volta vistati questi atti scompaiono dal sistema, impedendo ai Pm di inoltrarli agli uffici di destinazione (Gip o giudici del dibattimento). Il malfunzionamento è in corso dallo scorso 24 ottobre, data dell’ultimo aggiornamento del software. Ciò si apprende che il Procuratore del Tribunale di Milano Marcello Viola che ha dovuto ordinare con una circolare una nuova sospensione dell’utilizzo di App – con ritorno al deposito cartaceo«fino alla accertata risoluzione della problematica”, che, scrive, «incide in modo radicale sul regolare funzionamento dell’ufficio». Non solo: i Pm dovranno rifare su carta anche tutti gli atti depositati dal 24 ottobre a oggi, «che allo stato risultano bloccati nel sistema». Il problema, specifica Viola, «è stato oggetto di un primo tentativo di soluzione con la patch del 30 ottobre 2025, che tuttavia ad oggi non è stato risolutivo né vi sono tempi certi al riguardo».

Le risposte di Via Arenula

Il ministero della Giustizia, ha cercato di correre ai ripari e ha diffuso, per il tramite del Dipartimento per l’innovazione tecnologica, una nota di rassicurazione in cui si affermava che in seguito al nuovo aggiornamento effettuato «il sistema App funziona regolarmente. Tutti gli atti risultano visibili e vistabili; prosegue il monitoraggio tecnico per garantirne la stabilità».

La realtà descritta dalle Procure sembra altra e l’Anm ha diffuso un comunicato nel quale denuncia, invece, «il perdurante malfunzionamento del sistema informatico App giustizia che da settimane blocca la possibilità per magistrati e segreterie di completare e depositare atti fondamentali per l’attività giudiziaria».

Giova constatare che purtroppo in argomento governa il caos e si naviga a vista. Il percorso di digitalizzazione del processo penale telematico continua a trovare ostacoli che alimentano difficoltà di tutti gli operatori del diritto.

Le difficoltà della magistratura giudicante

Sul versante della magistratura giudicante, infatti, si registrano innumerevoli provvedimenti di sospensione temporanea dell’utilizzo di App, con costanti proroghe. Tra i tanti, vi è il provvedimento del Presidente del Tribunale di Milano n. 201/25 relativo alla proroga di sospensione temporanea con decorrenza 1° novembre 2025 e fino al 31 dicembre 2025 (ai sensi dell’art.175-bis, comma 4, c.p.p.) dell’utilizzo dell’applicativo APP per l’adozione e il deposito di atti, documenti, richieste e memorie relativi alle fasi processuali.

L’ansia degli avvocati

Gli avvocati sono costretti invece a vivere ansiosamente gli avvisi ministeriali di malfunzionamento del portale deposito atti penali (l’ultimo dal 31 ottobre al 3 novembre scorso) che li costringono affannosamente a correre ai ripari, con depositi via Pec, allegazioni delle disfunzioni e allungamento dei tempi per svolgere la loro attività professionale. I legali devono anche stare attenti a non sbagliare Pec, pena il rischio di vedersi aprire per i legali e i loro assistiti le forche caudine di funeste inammissibilità.

Le prassi “anomale” per sopperire ai disagi

Senza considerare la confusione sugli atti processuali che vengono depositati dai difensori direttamente in udienza. Anche qui si registra un contrasto nelle sezioni semplici di cassazione sulle conseguenze relative alla dichiarata inammissibilità della parte della costituzione di parte civile effettuata in udienza in formato cartaceo e non accompagnata dal deposito al portale: tale inammissibilità della costituzione in giudizio è illegittima (come ritiene Cass. pen., sez. II, n. 18624/2025) o assume le vesti dell’atto abnorme (come sostenuto dalla Quinta sezione, nella sentenza n. 24708/2025)?

Quest’ultima è da soluzione che andrebbe privilegiata perché solo così possono essere riviste le malpractice che ancora in alcune sedi giudiziarie obbligano il difensore della costituenda parte civile a depositare l’atto di costituzione non solo – come prevede il codice di rito – analogicamente in udienza ma compiere un passaggio “telematico” successivo, a lui non spettante: il deposito nel Portale della già depositata richiesta in udienza in formato cartaceo. Tale passaggio (a fortiori con la definitiva messa a regime del processo penale telematico), laddove per specifiche esigenze processuali l’atto o il documento è prodotto in corso di udienza in formato analogico, spetta alla cancelleria del giudice, come già precisato anche dalle circolari ministeriali che dovrà convertirlo senza ritardo convertito in digitale.

La Suprema Corte, forse anche prendendo spunto da tale quadro variegato e complesso, prova talvolta a fornire delle interpretazioni più soft, abbandonando rigidi formalismi.

Si registra infatti un orientamento “sostanzialistico” il quale, valorizzando il favor impugnationis e il principio del raggiungimento dello scopo dell’atto, ritiene nel caso di impugnazioni (per le autorità giudiziarie nelle quali in questa fase di transizione digitale è stato posticipato l’obbligo del deposito esclusivamente telematico) trasmesse a un indirizzo PEC non compreso nell’elenco D.G.S.I.A. – ma che, comunque, nonostante l’errore della parte nella trasmissione per via telematica, presa in carico dalla cancelleria del giudice competente entro il termine per la sua presentazione – in questi casi il gravame non vada dichiarato inammissibile se, benché inviata al giudice non competente a riceverla, sia stata da questi trasmessa al giudice competente, ed egli l’abbia tempestivamente ricevuta (ex multis, Cass. pen., sez. V, n. 23192/2025; sez. VI, n. 19415/2025). Ciò anche sulla spinta sovrannazionale della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale, richiamando il precedente parere n. 14 del 2011 del Consiglio consultivo dei giudici europei, ha affermato che le IT (tecnologie dell’informazione) «dovrebbero essere uno strumento o un mezzo per migliorare l’amministrazione della giustizia, per facilitare l’accesso degli utenti ai tribunali e per rafforzare le garanzie stabilite dall’articolo 6 CEDU: accesso alla giustizia, imparzialità, indipendenza del giudice, equità e ragionevole durata dei processi (…) Le IT non devono diminuire i diritti procedurali delle parti. I giudici devono stare attenti a tali rischi in quanto spetta loro la responsabilità di assicurare la tutela dei diritti delle parti», non dovendo, quindi, creare “formalismi eccessivi”, non giustificati da alcuna effettiva e meritevole di tutela esigenza (Corte Edu, 23 maggio 2024, Patricolo e altri contro Italia).

Tuttavia, su tale fattispecie concreta di recente la Prima sezione della Cassazione penale, con ordinanza n. 33741 del 2025, vista la coesistenza di contrapposto orientamento, ha rimesso la questione de qua alle sezioni unite.

Ritenendo, invece, non potersi aderire l’orientamento che privilegia la sostanza sulla forma, dovendosi bloccare il giudice dal chiaro tenore letterale delle norme censurate (che impediscono di sposare la suindicata lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata), la stessa prima sezione di legittimità ha poco prima sollevato d’ufficio (con ordinanza n. 30071 del 2025) questione di legittimità costituzionale dell’art. 87-bis, comma 7, lett. c) e 8, del d.lgs. n. 150 del 2022 (c.d. riforma Cartabia penale) sotto il profilo della irragionevolezza e dell’indebito sacrificio del diritto di difesa, ex artt. 3 e 24 Cost..

A fronte di tali diversi scenari interpretativi, come dovrebbe muoversi il povero avvocato?

Va un pochino meglio ai pubblici ministeri, ai quali la Cassazione gli concede talvolta (sez. I, n. 30521/2025) la possibilità di depositare gli appelli cautelari non solo in forma cartacea ma anche via Pec, fino al 31 dicembre 2025 (salvo ulteriori proroghe dei decreti ministeriali di fine anno, dopo i Dm n. 217/2023 e 206/2024). Questo in aperto contrasto con quanto affermato da Cass. pen., sez. III, n. 2815/2025, per la quale le modalità di presentazione dell’atto di impugnazione mediante Pec sono state introdotte, per le sole parti private, durante il periodo dell’emergenza sanitaria; dette modalità, sono state successivamente prorogate e mai espressamente estesa anche al pubblico ministero la facoltà di depositare l’atto di impugnazione a mezzo Pec.

In questo clima di incertezza telematica, che genera altrettanti discordanti soluzioni interpretative (da parte della stessa Corte regolatrice), sospensione dei depositi tramite App per i magistrati e avvocati che si rifugiano nel canale Pec, diventa traumatico muoversi per tutti gli operatori, allontanandosi così l’orizzonte della completa e piena operatività del processo penale telematico.

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