Associazioni professionali: avvocato socio solo con fondo comune e rischio d'impresa
Solo l'esistenza di un fondo comune, la partecipazione alle spese e al rischio di impresa fanno dell'avvocato un socio dello studio. Mentre non basta che il legale abbia stretto un accordo, con uno solo dei soci, senza ratifica da parte degli altri, né che abbia messo a disposizione oltre alla sua professionalità, anche un prestigioso studio a Parigi. La Corte di cassazione, con la sentenza 34538, respinge il ricorso del professionista teso a far riconoscere il rapporto di associazione professionale per aver condiviso, secondo la difesa, oltre allo studio francese, di cui pagava le spese, anche un portafogli clienti. Un ruolo per il quale il ricorrente reclamava il pagamento di circa 700 mila euro corrispondente al 30% degli onorari dovuti dai clienti comuni, come risultava da una scrittura redatta da uno dei soci. Il ricorrente contestava la decisione dei giudici di appello per i quali il ricorrente non poteva vantare un rapporto associativo, neppure atipico, meritevole della tutela invocata, per più di una ragione. L'intesa raggiunta con il titolare riguardava l'assistenza in forma condivisa di alcuni clienti del ricorrente, e non era comunque stata ratificata dagli altri soci. Mancava la costituzione di un fondo comune, non c'era un accordo sulla ripartizione delle spese, né una partecipazione agli utili e alle perdite e dunque al rischio d'impresa. Una lettura contestata dal ricorrente. A suo avviso, infatti, la costituzione di un fondo comune non sarebbe previsto né nell'associazione in partecipazione, né nel caso di associazione tra professionisti secondo l'articolo 4 dell'ordinamento forense, né nel contratto di società in cui è richiesto un patrimonio sociale. Per il rapporto associativo non sarebbe prevista neppure un intesa sulla ripartizione delle spese, essendo sufficiente l'apporto di un contributo da ciascuno degli associati per cogestire uno o più affari ripartendo gli utili. Nello specifico il legale riteneva di aver dato un importante contributo con l'immobile di Parigi e il suo “pacchetto clienti”, oltre a ritenere provata la partecipazione alle spese essendo stata sempre a suo carico la gestione dello studio legale francese. Quanto al rischio di impresa questo, in un rapporto tra professionisti, non può che stare nell'incognita sul pagamento degli onorari versati dai clienti. Per la Cassazione però è corretta la conclusione alla quale è giunta la Corte d'Appello che ha usato alcuni parametri interpretativi della disciplina della società semplice. In quest'ottica è dunque rilevante l'esistenza di un fondo comune, inteso come patrimonio distinto da quello personale dei singoli associati. Un elemento che caratterizza anche altri enti collettivi come le associazioni non riconosciute. Altro elemento qualificante è l'associazione alle spese, ritenuto non sussistente, e la partecipazione al rischio d'impresa, che non può essere tarato sul mancato pagamento degli onorari da parte dei clienti, rischio che il legale aveva sopportato. La Suprema corte ricorda che qualsiasi associazione professionale, anche se atipica, è contraddistinta dalla compartecipazione degli associati agli utili e alle perdite. E queste ultime non possono ridursi, nel mancato pagamento degli onorari, che rappresentano i ricavi “potendo essere solo conseguenza dell'eventuale superamento, sotto il profilo contabile, dei costi di gestione della complessa attività di uno studio professionale rispetto ai proventi dello studio medesimo”. Un tassello mancante nell'intesa tra il ricorrente e lo studio, perché il primo non ha provato l'esistenza di un accordo nel quale lo studio di Parigi era messo sul “piatto” in cambio del 30% su tutti gli onorari versati dai clienti assistiti congiuntamente dai professionisti dei due studi. Inutilmente il professionista fa presente ai giudici che considerare il rapporto che lo ha legato allo studio citato in giudizio come semplice contratto di collaborazione professionale, sarebbe “irragionevole, sproporzionato, nonché lesivo della sua dignità umana e professionale”, tenuto conto dell'apporto fornito. Ma per la Cassazione così è.
Corte di cassazione – Sezione I – Sentenza 27 dicembre 2019 n.34538