Professione e Mercato

Avvocato: diritto al compenso nonostante l'errore sul rito

Per la Cassazione l'importante è che l'errore non si sia tradotto in una violazione dei diritti di difesa

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di Marina Crisafi

All'avvocato che, sbagliando, intraprende una causa con il rito ordinario, spetta comunque il compenso se l'errore non compromette il diritto di difesa della cliente. È quanto ha affermato la Cassazione (ordinanza n. 22235/2022).

La vicenda
Nella vicenda, la Corte d'appello di Milano, in parziale modifica della sentenza di primo grado, condannava una donna a pagare oltre 22mila euro a titolo di compensi per l'attività professionale svolta dal proprio avvocato.
La Corte respingeva l'eccezione di nullità della sentenza appellata, perché decisa dal giudice monocratico anziché dal Collegio (come previsto dall'articolo 14 del Dlgs 150/2011), ritenendo che la violazione delle norme processuali assume rilievo solo ove abbia compromesso i diritti e le garanzie difensive, situazione che non ricorreva nel caso di specie, posto che il giudizio, trattato con rito ordinario, aveva consentito l'esercizio di più ampie facoltà difensive rispetto al rito sommario speciale.
La donna ricorreva quindi in Cassazione e l'avvocato, dal canto suo, resisteva con controricorso.

Il ricorso
In particolare, la donna denunciava la violazione degli articoli 50 bis, 161, comma primo, c.p.c., 14 del Dlgs 150/2011, asserendo che, poiché la causa di primo grado era sottoposta al rito sommario speciale ai sensi dell'articolo 14 Dlgs 150/2011 e doveva essere decisa dal tribunale in composizione collegiale, la Corte d'appello avrebbe dovuto dichiarare nulla la prima decisione e non confermarla.
Inoltre, si doleva della violazione dell'articolo 14, comma 3, del Dlgs 150/2011, lamentando che l'errata applicazione del rito le aveva impedito di difendersi personalmente gravandola dei costi, derivanti dalla maggiore complessità del rito di cognizione ordinario, che sarebbero stati sicuramente evitati.

La decisione
Ma gli Ermellini le danno "picche". Per la Corte tutte le doglianze sono inammissibili. Innanzitutto, contrariamente a quanto sosteneva la ricorrente, se è vero che il vizio della prima pronuncia, adottata dal giudice monocratico anziché dal Collegio, non poteva ritenersi sanato, non avendo la Corte d'appello rinnovato integralmente la decisione, ma avendo statuito solo sulle questioni devolute in appello, è vero altresì che la donna, pur dolendosi del mancato annullamento della prima sentenza, non ha indicato in che termini l'invalidità della decisione del tribunale abbia inficiato anche le successive statuizioni di merito assunte in secondo grado.
La giurisprudenza ha affermato, spiegano ancora dal Palazzaccio, che, "poiché l'eventuale errore in ordine alla composizione collegiale o monocratica del tribunale non dà luogo a rimessione della causa al primo giudice, il fatto che la corte d'appello abbia giudicato sul presupposto della validità della precedente pronuncia ovvero in sostituzione del tribunale, dopo averne annullato la sentenza, può integrare un motivo di ricorso per cassazione solo qualora risulti, e sia stato dedotto dal ricorrente, che l'applicazione delle regole processuali del giudizio di secondo grado, in luogo di quelle di primo grado cui si sarebbe dovuto far riferimento, abbia influito sulla decisione". Cosa non avvenuta nel caso di specie.
Quanto all'errore sul rito, affermano da piazza Cavour, lo stesso "assume rilievo come causa di nullità della sentenza solo ove si sia tradotto in una violazione dei diritti di difesa o abbia inciso sulle regole di competenza".
Le norme processuali, infatti, "hanno natura servente, sicché la deduzione dei vizi derivanti dalla loro inosservanza (i cd. vizi formali) non serve a tutelare l'astratta regolarità dell'attività giudiziaria, ma a eliminare i pregiudizi conseguenti all'esercizio delle facoltà in cui sì esprime il diritto di difesa".
Perciò è inammissibile per difetto di interesse la doglianza dedotta come motivo di impugnazione relativa alla mancata adozione di un diverso rito, "non essendo indicato lo specifico pregiudizio processuale che dalla sua mancata adozione sia concretamente derivato in termini di esercizio delle facoltà processuali (cfr. Cass. SS.UU. n. 36596/2021), non venendo in rilievo che la parte avrebbe potuto – in ipotesi - costituirsi personalmente o ottenere un risparmio di costi processuali, data la scelta della ricorrente di costituirsi comunque mediante un difensore".
Da qui l'inammissibilità del ricorso e la condanna della donna al pagamento delle spese processuali oltre a un ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

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