DDL Lavoro: principali misure e prime valutazioni
Tra le principali novità le dimissioni c.d. “per fatti concludenti” e l’ipotesi derogatoria alla disciplina delle dimissioni telematiche, il calcolo della durata del periodo di prova nei rapporti a termine e l’avvio del rapporto a causa mista
Lo scorso 11 Dicembre 2024 il Senato ha approvato in via definitiva il nuovo disegno di legge in materia lavoro (DDL Lavoro o Collegato Lavoro).
Fra le principali novità, quella che – nell’ambito dei primi confronti politico-sindacali - ha dato luogo a più ampio dibattito è stata l’introduzione delle c.d. dimissioni “per fatti concludenti”. La questione, negli ultimi anni, è stata oggetto di un contrasto giurisprudenziale tra le corti di merito e la Suprema Corte di Cassazione.
Ad esempio, il Tribunale di Udine, con la sentenza n. 20/2022, aveva ritenuto irragionevole riconoscere l’esborso delle provvidenze pubbliche, normalmente stanziate per assistere chi ha perso il lavoro involontariamente, anche in casi di licenziamento “autoindotto”, nei confronti di soggetti che si trovavano per propria libera scelta in uno stato di disoccupazione.
Diversamente, la Corte di Cassazione (sentenza n. 27331/2023) aveva di fatto, anche di recente, escluso che le dimissioni potessero aver luogo “per fatti concludenti” (richiamando la disciplina dell’art. 26 del d.lgs. n. 151 del 2015 che richiede la formalizzazione in via telematica delle dimissioni ad substantiam). In tale contesto, il legislatore ha ritenuto di superare il rigido formalismo imposto dalle previsioni di cui all’art. 26 del d.lgs. n. 151 del 2015 e di tenere conto di oggettive situazioni di abuso di diritto che si sono realizzate nella pratica: lavoratori che, intendendo lasciare volontariamente il lavoro ma volendo ottenere il trattamento NASPI, iniziavano ad assentarsi dal lavoro, omettendo di dimettersi e “obbligando” così il datore di lavoro a licenziarli - all’esito di un procedimento disciplinare - per assenze ingiustificate.
In particolare, l’art. 19 del provvedimento - integrando la disciplina di cui al citato art. 26 - prevede che il contratto di lavoro può considerarsi risolto per “volontà del lavoratore” in caso di assenza ingiustificata protrattasi per oltre 15 giorni, ovvero per il diverso termine previsto dal CCNL applicabile. In tali ipotesi, la nuova disposizione prevede che sia il datore di lavoro a trasmettere la comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro alla sede territoriale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, che avrà poi facoltà di verificarne la veridicità.
L’introduzione di un’ipotesi derogatoria alla disciplina delle dimissioni telematiche è stata da alcuni letta come un significativo passo indietro rispetto agli intenti perseguiti con i precedenti interventi normativi volti a contrastare la prassi di “dimissioni in bianco”. In particolare, si osserva, le riforme che in passato sono state adottate in materia di dimissioni erano preordinate, mediante l’introduzione di apposite procedure, da un lato, a conferire data certa alle dimissioni e, dall’altro, a garantire che la volontà del lavoratore di risolvere il contratto di lavoro si fosse formata e venisse espressa dal lavoratore medesimo in maniera autentica.
Rispetto a tali posizioni, riteniamo si possa osservare che, in primo luogo, il legislatore ha introdotto le modifiche anzidette mantenendo però espressamente la finalità di contrastare il fenomeno delle “dimissioni in bianco” (o, comunque, dimissioni per fatti concludenti indotte/forzate dal datore di lavoro): invero, ai sensi delnuovo comma dell’art. 26 del d.lgs. n. 151 del 2015, le dimissioni per fatti concludenti non trovano applicazione ove il lavoratore fornisca la prova di essere stato impossibilitato, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, a comunicare i motivi che giustificano la sua assenza.
In secondo luogo, guardando al contesto normativo in cui ha fatto il suo ingresso questo nuovo istituto è da notare come, contestualmente all’approvazione del DDL Lavoro, sia stato anche emendato il d.lgs. n. 22 del 2015, inerente la NASPI stessa. In base alla nuova disciplina, dal 1 gennaio 2025 i lavoratori che hanno rassegnato dimissioni volontarie da un lavoro a tempo indeterminato nei 12 mesi precedenti avranno diritto alla NASPI solo nel caso in cui abbiano conseguito almeno 13 settimane di contribuzione dal nuovo impiego, per il quale si richiede l’indennità.
In tal modo, a nostro avviso, l’introduzione dell’istituto delle dimissioni per fatti concludenti – bilanciato dalla espressa possibilità non solo per il lavoratore di rettificare ma anche, e soprattutto, per l’ITL competente di verificare la sussistenza delle condizioni previste per legge – dimostra un preciso intento del legislatore di circoscrivere il diritto alla NASPI alle sole ipotesi in cui il lavoratore perda la propria occupazione in modo genuinamente involontario.
Una novità che, allo stato, sembra non aver invece provocato divergenze è quella inerente la durata del periodo di prova nei rapporti a termine. Il DDL Lavoro ha infatti il merito di chiarire, in maniera oggettiva, i dubbi che aveva lasciato il d.lgs. 104/2022 circa l’estensione temporale del patto di prova nei contratti a tempo determinato. Il “Decreto Trasparenza”, invero, aveva fissato il principio della proporzionalità tra durata del rapporto a termine e periodo di prova, lasciando però aperto il tema di come in concreto tale proporzione dovesse essere determinata e, quindi, applicata e verificata. Ad esempio, alcuni dei primi commentatori avevano suggerito, senza però alcun argomento oggettivo, che - per rapporti a termine fino a 12 mesi – si doveva dividere per 12 la durata massima del periodo di prova prevista dalla contrattazione collettiva e moltiplicare il risultato per il numero di mesi di durata del rapporto a termine.
Il DDL Lavoro ha ora chiarito che il periodo di prova nei contratti a termine è pari a un giorno di effettiva prestazione per ogni quindici giorni di calendario di durata a partire dalla data di inizio del rapporto di lavoro, non potendo, in ogni caso, essere inferiore a due giorni né superiore a quindici giorni, per i rapporti di lavoro aventi durata non superiore a sei mesi, e a trenta giorni, per quelli aventi durata superiore a sei mesi e inferiore a dodici mesi.
Se dunque, da un lato, il DDL offre un criterio certamente oggettivo per calcolare la durata del periodo di prova in base all’estensione temporale del rapporto a termine, dall’altro, nulla dispone in merito alla previsione del Decreto Trasparenza inerente la “proporzionalità verticale” con conseguente rischio (ove non si dovesse concludere per una abrogazione implicita da parte della legge posteriore) di contestazioni in merito alla proporzionalità della durata del patto di prova “in relazione alla natura dell’impiego”. In particolare, tale rischio appare enfatizzato dalla circostanza che il DDL, nel tentativo di fornire un parametro “universale” di calcolo, offre un regola di quantificazione del periodo di prova che opera su di un piano esclusivamente orizzontale e non ne differenzia la durata – come, invece, tipicamente previsto della disciplina del periodo di prova nei contratti collettivi – anche in base alla classificazione e al livello di inquadramento dei dipendenti.
Al netto di tali ragionamenti, un intervento di carattere simile sarebbe comunque auspicabile anche in altri ambiti in cui le norme di riferimento lasciano eccessivo spazio all’interpretazione e, di conseguenza, a possibili contenziosi (si pensi, ad esempio, al calcolo del corrispettivo del patto di non concorrenza ex art. 2125 Cod. Civ., relativamente al quale la disposizione di riferimento non offre un criterio di determinazione).
Un’ulteriore innovazione potenzialmente foriera di discussioni è quella introdotta dall’art. 17 del DDL, che prevede una deroga alla preclusione – disposta all’art. 1, comma 57, lettera d-bis della legge n. 190 del 2014 - del regime fiscale forfetario per le persone che svolgono, in prevalenza, attività di lavoro autonomo in favore di datori di lavoro con i quali sono in essere - o sono intercorsi nei due antecedenti periodi d’imposta - rapporti di lavoro subordinato, ovvero nei confronti di soggetti direttamente o indirettamente riconducibili ai suddetti datori di lavoro. La norma, di natura apparentemente fiscale, nel contemplare la possibilità che un lavoratore possa, contemporaneamente, instaurare con uno stesso datore di lavoro un rapporto di lavoro subordinato e un rapporto di lavoro autonomo, avvalendosi di un regime agevolato, ha un riflesso giuslavoristico, prevedendo espressamente la possibilità di un rapporto a causa mista.
Tale opzione è subordinata alla sussistenza di determinati requisiti, che riguardano il lavoratore (deve trattarsi di una persona fisica iscritta agli albi o registri professionali, esercente attività libero-professionali), le dimensioni occupazionali dell’impresa (avere in forza più di 250 dipendenti) e le caratteristiche del contratto (il lavoratore deve essere assunto a tempo indeterminato con un orario part-time ricompreso fra 40% ed il 50% dell’orario previsto dal contratto collettivo applicato e il parallelo altro rapporto dovrà essere regolato da un contratto di lavoro autonomo o professionale, con domicilio professionale in un luogo diverso da quello del datore di lavoro).
La validità del “contratto misto” è poi condizionata al rilascio di una preventiva certificazione da parte di uno degli organi previsti dall’art. 76 del d.lgs. 276 del 2003, e all’assenza di sovrapposizione – per modalità, oggetto e/o orario - tra attività da svolgere come lavoro subordinato e quelle invece oggetto del parallelo lavoro autonomo.
La problematica aziendale del coordinamento della gestione di un duplice distinto rapporto con il medesimo collaboratore, e della relativa cessazione, tuttavia, non è del tutto nuova; si pensi ad esempio al frequente caso dell’amministratore che sia anche dipendente della medesima società. A ogni modo, nel DDL Lavoro nulla è previsto in ordine ai problemi di natura pratica che la commistione di due rapporti aventi caratteristiche ontologicamente diverse potrebbe comportare. Ad esempio, potrebbero verificarsi problemi di coordinamento con riferimento alla disciplina dell’orario di lavoro: in particolare, se l’obbligatorietà dei riposi settimanali e giornalieri non si applica alla figura del prestatore autonomo, nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato il dipendente ha diritto a fruire di almeno undici ore di riposo giornaliero e 24 ore di riposo consecutivo ogni sette giorni. L’affiancamento di un rapporto di carattere autonomo (non soggetto a limiti di orario di lavoro) potrebbe determinare una compressione del diritto al riposo appena ricordato. Sul punto, il già citato Decreto Trasparenza attribuisce al datore di lavoro il diritto di negare il cumulo di impieghi proprio quando ciò possa provocare un pregiudizio del rispetto della durata dei riposi: una norma di carattere simile sarebbe stata indicata anche in questo contesto. In mancanza, si potrebbe anche ritenere – in via interpretativa – che, in base a tale norma, il “contratto misto” debba comunque essere gestito ed organizzato in maniera da escludere un pregiudizio del diritto a fruire dei riposi.
Dal lato dell’azienda, poi, la gestione come collaboratore autonomo di una persona che è anche dipendente potrebbe rivelarsi problematica con conseguente aumento del rischio di riqualificazione della collaborazione autonoma (con ogni conseguenza di legge, sia retributiva, contributiva che di disciplina applicabile all’“unico” rapporto di lavoro subordinato, anche in tema di orario di lavoro e relativi limiti e maggiorazioni economiche).
Inoltre, per quanto i due rapporti siano distinti, appare improbabile che la cessazione di uno dei due rapporti non comporti anche problematiche rispetto all’altro rapporto (in tema di relativa gestione o anche di cessazione) delle quali, quindi, occorrerà tenere conto già in sede di costituzione/formalizzazione dei due rapporti.
Infine, di interesse è anche l’estensione della possibilità di svolgere conciliazioni in modalità telematica e mediante collegamenti audiovisivi a tutti i casi previsti dagli articoli 410 e 412 ter Cod. Proc. Civ.. Per quanto tale disposizione introduca, formalmente, una nuova modalità procedimentale, nella prassi la norma non rappresenta una novità. Ed infatti, dal 2020 ad oggi, anche valicato l’ambito pandemico, si è sempre più diffuso il ricorso alle c.d. conciliazioni “da remoto”: la normativa sino ad oggi in vigore, però, prevedeva espressamente la possibilità di ricorrere agli strumenti di comunicazione da remoto per le sole procedure amministrative o conciliative di competenza dell’Ispettorato nazionale del lavoro; tuttavia, la specificità del dato normativo non ha impedito che la modalità telematica venisse adottata dalle altre sedi di cui all’art. 2113, comma 4, Cod. Civ. (con particolare diffusione della modalità telematica presso le commissioni istituite presso le università).
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*A cura di Fabrizio Grillo, Senior Associate e Valeria Luccarini, Trainee - Hogan Lovells