Greenwashing: il Tribunale di Milano traccia le regole per una corretta comunicazione ambientale
In linea con la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, il Tribunale di Milano valorizza la nozione di consumatore medio quale parametro centrale nella valutazione della correttezza delle pratiche commerciali
Con il decreto del 25 luglio 2025, il Tribunale di Milano – Sezione Impresa (R.G. 25667/2024) – ha introdotto una svolta significativa nel contrasto alle pratiche commerciali scorrette legate alla sostenibilità ambientale, delineando limiti puntuali all’utilizzo delle dichiarazioni ambientali (cd. green claims).
La pronuncia si colloca nel solco tracciato dalla sentenza del Tribunale di Bologna del 6 novembre 2024 – confermata dalla Corte d’Appello di Bologna nell’aprile 2025 e attualmente al vaglio della Corte di Cassazione – che, pur affrontando questioni analoghe, non aveva ravvisato la sussistenza di pratiche commerciali scorrette.
Diversamente, il Tribunale di Milano si è allineato alla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea (tra le altre, C-646/22 del 14 novembre 2024; C-139/22 del 21 settembre 2023), valorizzando la nozione di consumatore medio quale parametro centrale nella valutazione della correttezza delle pratiche commerciali.
Secondo la Corte di Giustizia, il consumatore medio rappresenta una figura giuridica di riferimento, “normalmente informata e ragionevolmente attenta e avveduta”, il cui comportamento economico può risultare falsato qualora una pratica commerciale, in violazione dei requisiti di diligenza professionale, fornisca informazioni false o comunque idonee a trarre in inganno.
La nozione di consumatore medio non ha natura statistica: giudici e autorità nazionali devono valutarne la “reazione tipica” rispetto alla fattispecie concreta, alla luce della giurisprudenza europea (cfr. considerando 18 della Direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali). Come ribadito dalla Corte di Giustizia (C-646/22, 14 novembre 2024), tale valutazione “non può essere un’attività puramente teorica”, dovendo tener conto di elementi realistici, purché compatibili con le precisazioni fornite dalla Corte in merito alla nozione stessa.
Ne discende che il concetto di consumatore medio costituisce un criterio oggettivo, indipendente dalle conoscenze o percezioni soggettive del singolo individuo, volto a garantire un’applicazione uniforme delle norme in materia di informazione e pubblicità ingannevole nei diversi Stati membri.
Questo approccio risponde all’obiettivo perseguito dal diritto dell’Unione di assicurare un’interpretazione e un’applicazione coerenti delle regole sulla lealtà delle pratiche commerciali. In tal senso, la giurisprudenza tedesca ha svolto un ruolo pionieristico, oggi sempre più recepito e consolidato anche in Italia.
In concreto, il Tribunale di Milano ha ritenuto ingannevoli – e quindi da inibire – i seguenti green claims:
• “Questa impresa rispetta alti standard di impatto ambientale e sociale positivo”;
• “Ci impegniamo a seguire i più alti standard di sostenibilità, trasparenza ed equità”;
• “La nostra filosofia si estende all’intera filiera, con fornitori locali a impatto zero”;
• “Maglieria IMPATTO ZERO”.
Secondo i giudici milanesi, al consumatore medio devono essere presentate affermazioni chiare, specifiche e verificabili. Ai sensi dell’art. 12 della Direttiva 2005/29/CE, l’operatore economico deve disporre di una documentazione idonea a comprovare la veridicità delle dichiarazioni ambientali.
L’impostazione adottata dal Tribunale di Milano si inserisce in una tendenza ormai consolidata anche in altri ordinamenti europei, in particolare in Germania e Francia, dove corti e autorità antitrust applicano principi analoghi per reprimere pratiche di greenwashing.
Nel 2025, un tribunale regionale tedesco ha condannato alcune compagnie aeree per aver promosso un sovrapprezzo volontario sui biglietti, presentato come compensazione delle emissioni di CO₂, senza fornire adeguate evidenze scientifiche a sostegno.
In Francia, già nel 2021, l’ARPP (Autorité de Régulation Professionnelle de la Publicité) ha sanzionato una campagna pubblicitaria di una società produttrice di calzature che, con lo slogan “100% iconica, 50% riciclata” e un logo evocativo della lotta all’inquinamento da plastica, suggeriva caratteristiche ambientali non supportate da prove verificabili.
Analoga è la prassi dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), che ha più volte sanzionato l’uso di asserzioni ambientali generiche o prive di riscontro documentale. Nel 2024-2025, l’AGCM ha contestato, infatti, l’uso di claim ambientali ingannevoli come “circolarità dei prodotti”, “consumo responsabile”, “biodegradabilità”, “compostabilità”, “100% energia verde”, “zero emissioni” e “riduzione della CO₂”, ritenuti privi di evidenze scientifiche o verificabili. L’ultimo caso ha riguardato un’azienda del settore soft beverage, invitata – mediante un provvedimento di moral suasion – a modificare la propria comunicazione dopo aver diffuso il claim “CO₂ Impatto Zero”, poi rimosso da etichette, confezioni e spot pubblicitari.
Sui marchi di sostenibilità
Il Tribunale di Milano ha inoltre chiarito che i claim accompagnati dall’utilizzo di marchi riconducibili a certificazioni di sostenibilità di natura privatistica godono esclusivamente dell’autorevolezza derivante dalla reputazione del soggetto promotore e non assicurano, di per sé, alcuna conformità a norme, procedure o standard di natura pubblicistica o accreditata.
L’adesione a un sistema di certificazione non pubblico, secondo il Tribunale, “non fa altro che segnalare l’appartenenza a un circuito privato di operatori che condividono determinati requisiti e valori di riferimento”.
Le certificazioni di sostenibilità private, pertanto, non costituiscono – da sole – una prova oggettiva e verificabile circa l’assenza di impatti ambientali o sociali, né garantiscono un’effettiva misurazione del livello di sostenibilità dichiarato. Tali marchi commerciali, evocativi di caratteristiche ambientali positive ma non supportati da certificazioni pubbliche o accreditate, saranno considerati in ogni caso pratiche ingannevoli ai sensi della Direttiva (UE) 2024/825, le cui disposizioni saranno applicabili dal 27 settembre 2026.
La Direttiva – il cui schema di decreto legislativo di recepimento è stato approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri il 5 novembre 2025, con cinque mesi di anticipo rispetto al termine fissato – mira a responsabilizzare il consumatore, rafforzandone la capacità di orientare il mercato attraverso scelte di acquisto informate e consapevoli. L’obiettivo è contribuire, in linea con la strategia europea, alla transizione verso un’economia sostenibile e trasparente.
La posizione assunta dal Tribunale di Milano potrebbe rappresentare la prima di una lunga serie di pronunce destinate a delineare, anche in Italia, un quadro sempre più preciso in materia di greenwashing. Si tratta di un’evoluzione in linea con quanto già avviene da tempo in altri ordinamenti europei – in primis quello tedesco – dove giudici e autorità hanno progressivamente affinato gli standard di trasparenza e verificabilità delle comunicazioni ambientali.
Questa tendenza, lungi dal costituire un ostacolo per le imprese, può essere letta come un incentivo a rafforzare la credibilità delle strategie ESG e la fiducia del pubblico nei confronti dei brand che adottano un approccio autentico e documentato alla sostenibilità.
In un mercato in cui il consumatore è sempre più attento all’impatto ambientale dei prodotti e delle pratiche aziendali, la chiarezza e la verificabilità delle dichiarazioni assumono un valore competitivo determinante.
Le imprese che integrano la sostenibilità in modo trasparente nei propri processi e nella comunicazione potranno così coniugare conformità normativa e valorizzazione della propria reputazione, trasformando l’obbligo di correttezza informativa in un fattore di fiducia e di differenziazione sul mercato.
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*Barbara Klaus, Avvocato/Rechtsanwältin, Partner, Rödl & Partner, Milano-Norimberga-Berlino
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