Griffe di lusso, no al licenziamento per il video della cliente postato nella chat dei colleghi
Per la Corte di cassazione, sentenza n. 5334/2025, la comunicazione gode delle tutele costituzionali della corrispondenza privata
La corrispondenza privata dei dipendenti, inclusi i video inviati ai colleghi in un gruppo chiuso WhatsApp, gode della tutela della libertà e riservatezza delle comunicazioni prevista dall’articolo 15 della Costituzione e non può dunque essere utilizzata a fini disciplinari contro il dipendente stesso. E l’eventuale inoltro del messaggio al datore di lavoro, da parte di uno dei partecipanti, integra una violazione dell’obbligo di segretezza. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 5334/2025, accogliendo il ricorso di una dipendente di una nota multinazionale del lusso licenziata per aver postato sulla chat il video di una cliente “particolarmente corposa”, mentre era intenta comprare dei prodotti nel negozio di Venezia, con il commento “Do u like…Ve3?”.
La Corte d’appello aveva confermato il licenziamento affermando che era chiaro il “riprovevole” intento denigratorio della cliente e il rischio che poteva derivarne per il marchio in caso di diffusione. Secondo l’azienda, che aveva avuto il video da uno dei 15 appartenenti alla chat, il destinatario del messaggio, dopo averlo ricevuto è libero di “farne l’uso che vuole anche divulgarlo a terzi”.
Una lettura che non trova d’accordo la Sezione lavoro. La Cassazione, per prima cosa, ricorda che la Corte costituzionale con la sentenza n. 170/2023 ha esteso la tutela anche a “nuovi mezzi e forme della comunicazione riservata” affermando che “la garanzia si estende ad ogni strumento che l’evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini comunicativi, compresi quelli elettronici e informatici, ignoti al momento del varo della Carta costituzionale». In questo senso, “posta elettronica e messaggi inviati tramite l’applicazione WhatsApp (appartenente ai sistemi di cosiddetta messaggistica istantanea) rientrano a pieno titolo nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost., apparendo del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi”.
Sulla stessa linea anche la Cedu che “senza incertezze”, ha ricondotto sotto il cono di protezione dell’articolo 8 CEDU – ove pure si fa riferimento alla «corrispondenza» tout court – i messaggi di posta elettronica, gli SMS e la messaggistica istantanea inviata e ricevuta tramite internet.
Successivamente, la Suprema corte osserva che la condotta contestata non riguardava la realizzazione del video in sé ma l’averlo “postato” sulla chat. “È pertanto estranea al giudizio – si legge - ogni considerazione sulle pur innegabili esigenze di tutela della privacy della persona ripresa nel video e sulla mancanza di consenso di questa”. È invece indubbio che la condotta rientri nel raggio di protezione dell’articolo 15 Cost., “atteso che il messaggio è stato inviato a persone determinate, facenti parte della chat ristretta dei dipendenti del negozio, e le caratteristiche tecniche del mezzo di comunicazione adoperato, WhatsApp, riflettono in modo inequivoco la volontà della mittente di escludere terzi dalla conoscenza del messaggio e soddisfano il requisito di segretezza della corrispondenza”. Come compravato dal fatto che la violazione della segretezza è avvenuta ad opera di uno dei partecipanti e non di un estraneo, fatto che integra un violazione della riservatezza in danno del dipendente licenziato.
Il licenziamento per giusta causa, afferma la Corte è legato alla violazione di obblighi di “diligenza e fedeltà” connessi all’attività lavorativa del dipendente. Dunque, “non rientra tra le prerogative datoriali un potere sanzionatorio di tipo meramente morale nei confronti dei dipendenti, tale da comprimere o limitare spazi di libertà costituzionalmente protetti, come quello concernente la corrispondenza privata”.
Ne deriva, prosegue la Corte, che “la garanzia della libertà e segretezza della corrispondenza privata e il diritto alla riservatezza nel rapporto di lavoro, presidi della dignità del lavoratore, impediscono di elevare a giusta causa di licenziamento il contenuto in sé delle comunicazioni private del lavoratore, trasmesse col telefono personale a persone determinate e con modalità significative dell’intento di mantenere segrete le stesse, a prescindere dal mezzo e dai modi con cui il datore di lavoro ne sia venuto a conoscenza”.
La Corte d’appello invece, conclude la sentenza, “non ha colto la portata e le implicazioni del diritto fondamentale alla segretezza della corrispondenza ed ha assegnato valore dirimente al fatto che il messaggio non fosse stato appreso dal datore di propria iniziativa, ma gli fosse stato consegnato da uno dei partecipanti alla chat, senza tuttavia considerare che tale aspetto non fa venir meno lo statuto protettivo dell’art. 15 Cost.”.