Casi pratici

Il fenomeno del randagismo: responsabilità e risarcimento danni

Il fenomeno del "randagismo"

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di Renata Lombardo

la QUESTIONE
Chi sono i soggetti titolari dell'obbligo giuridico di prevenire il fenomeno del randagismo? Qual è la disciplina giuridica da applicare? Tale disciplina è uguale all'ipotesi in cui i danni siano causati da animali selvatici protetti?


L'espressione "animali randagi" è comunemente riferita a tutti quegli animali che vagano, privi di padrone.
In Italia, la presenza di animali randagi – per lo più cani – è sempre stata molto diffusa ed invero appare, oggi, esserlo ancor di più, a seguito dei molteplici casi di abbandono cui purtroppo assistiamo.
È assai frequente che tali animali, in quanto non addomesticati o impauriti, aggrediscano i comuni passanti ovvero provochino sinistri stradali.
Il legislatore si è quindi, sin da subito, preoccupato di dettare una disciplina normativa, volta a tutelare sia la salute pubblica che l'ambiente al fine di favorire una equilibrata e corretta convivenza tra uomo e animale.

La normativa di riferimento. I soggetti competenti
La legge quadro del 14 agosto 1991, numero 281, dettata per l'appunto in materia "…di animali di affezione e prevenzione del randagismo…", prevede una serie di disposizioni dirette a tutelare anche gli animali randagi, senza tuttavia individuare in maniera chiara e puntuale i soggetti giuridici competenti.
La normativa nazionale vigente, difatti, si limita unicamente a demandare alle Regioni la regolamentazione della materia, prevedendo, nello specifico, che le medesime, mediante l'introduzione di apposite leggi regionali – attuative della citata legge quadro – individuino i soggetti giuridici competenti in tale ambito e adottino specifici programmi volti a prevenire il rischio di un pericolo per l'incolumità pubblica.
Più precisamente, i sensi dell'art. 3 della legge n. 281/1991 «le regioni provvedono a determinare, con propria legge … i criteri per il risanamento dei canili comunali e la costruzione dei rifugi per cani. Tali strutture devono garantire buone condizioni di vita per i cani e il rispetto delle norme igienico-sanitarie e sono sottoposte al controllo sanitario dei servizi veterinari delle unità sanitarie locali. La legge regionale determina altresì i criteri e le modalità per il riparto tra i comuni dei contributi per la realizzazione degli interventi di loro competenza».
Dalla lettura di tale disposizione normativa, quindi, spetta alle Regioni il dovere di individuare gli enti pubblici preposti alla cattura e alla custodia degli animali randagi. Ne consegue, pertanto, che, ai fini dell'individuazione dei soggetti in concreto responsabili degli eventuali danni causati da animali randagi, occorre avere specifico riguardo, di volta in volta ed in concreto, alle singole leggi regionali ed a ciò che esse dispongono e disciplinano nel proprio territorio per tale materia.
In definitiva, dunque, la responsabilità in esame è attribuita all'ente o agli enti individuati dalla singola legge regionale attuativa della legge quadro n. 281/1991 – di solito, Comuni e Aziende Sanitarie Provinciali (ASP) – quali competenti alla prevenzione e gestione del fenomeno del randagismo.
In tal senso, si è pronunciata la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale il Comune e l'Azienda sanitaria locale sono responsabili in solido per i danni cagionati da un cane randagio, ogni qual volta tali enti, in base alla legge nazionale e regionale, sono chiamati a prevenire il fenomeno del randagismo, senza che rilevi l'eventuale assenza di segnali di pericolo nella zona in cui si è verificato l'evento dannoso (v. Corte di Cassazione, sez. III civ., ordinanza 24 settembre 2019, n. 23633).
Sul punto, occorre tuttavia operare una breve precisazione. Come, difatti, ha chiarito più volte la giurisprudenza ai fini della configurabilità della responsabilità in esame, non è sufficiente la presenza di una generica previsione in materia, essendo, al contrario, necessaria l'attribuzione chiara ed univoca dei doveri di cattura e custodia di tali animali (Corte di Cassazione, sez. III civ., ordinanza 10 settembre 2019, n. 22522; Corte di Cassazione, sez. III civ., ordinanza 18 maggio 2017, n. 12495; in tal senso, si veda, nel merito, Tribunale di Nocera Inferiore, sez. II civ., 25 febbraio 2020, n. 188).

Natura della responsabilità e disciplina giuridica da applicare
In origine, questione particolarmente dibattuta, tanto in giurisprudenza quanto in dottrina, era quella relativa alla natura della responsabilità dei danni cagionati da animali randagi e, conseguentemente, all'individuazione della disciplina giuridica da applicare.
Più precisamente, la giurisprudenza si interrogava se la responsabilità derivante dai danni causati da tali animali fosse da ricondurre all'ipotesi di responsabilità ex artt. 2051 e 2052 c.c. ovvero fosse disciplinata dalle regole generali della responsabilità extracontrattuale di cui all'art. 2043 c.c.
Orbene, ad oggi, la Suprema Corte è concorde nel ritenere che la responsabilità dei danni cagionati da animali randagi è disciplinata dalle regole generali di cui all'art. 2043 c.c. (ex multis, v. Corte di Cassazione, sez. III civ., 22 giugno 2020, n. 12112).
La Corte, in particolare, muovendo dalla natura di tali animali, evidenzia in molteplici pronunce la non riconducibilità della responsabilità in esame a quella di cui agli artt. 2051 e 2052 c.c. dal momento che, in tale ipotesi, è assente qualsivoglia rapporto di proprietà, custodia od uso sui medesimi da parte degli enti pubblici preposti alla gestione degli stessi. (Corte di Cassazione, sez. III civ., 22 giugno 2020, n. 12112, secondo la quale per l'appunto l'impossibilità di configurare un potere di governo della cosa non consente di ricondurre l'evento dannoso a responsabilità custodiale; si veda anche Corte d'Appello di Bari, sez. L., 23 giugno 2021, n. 1064).
Ne consegue, pertanto, che l'assenza di un effettivo e concreto potere di governo su tali animali – in ragione proprio della loro natura di "randagi" – fa sì che l'eventuale responsabilità per i danni provocati dagli stessi non sia sussumibile nel concetto di custodia rilevante ai sensi dell'art. 2051 c.c.

Onere della prova
Con riguardo all'onere probatorio – trovando applicazione le regole generali di cui all'art. 2043 c.c. – grava, in capo al danneggiato, l'allegazione e la prova della concreta condotta, colposa od omissiva, ascrivibile all'ente competente, nonché la sua riconducibilità all'evento dannoso (sul punto, v. Corte di Cassazione, sez. III civ., ordinanza 28 luglio 2022, n. 23585).
È, difatti, insufficiente, ai fini della configurabilità della responsabilità in esame, la mera individuazione dell'ente a cui, in base alla legge regionale, è attribuito il compito di controllo e gestione del fenomeno del randagismo; essendo, al contrario, necessaria la prova di tutti gli elementi costitutivi di detta responsabilità.
Ne consegue, pertanto, che, in assenza di una tale puntuale allegazione, la responsabilità non potrà considerarsi sussistente.

La differente disciplina giuridica nell'ipotesi di danni cagionati da animali selvatici protetti
Infine, un cenno va fatto in merito alla distinzione tra l'ipotesi di responsabilità sin qui esaminata e quella, invece, derivante dai danni cagionali da animali selvatici, protetti ai sensi della L. n. 157 del 1992.
Tali specie protette, in particolare, rientrano nel patrimonio indisponibile dello Stato e sono generalmente affidate alla cura ed alla gestione di soggetti pubblici in ragione della tutela generale dell'ambiente e dell'ecosistema.
Ebbene, tali due ipotesi di responsabilità –rispettivamente, per i danni causati da animali randagi o da animali selvatici – devono esser tenute ben distinte tra loro, essendo del tutto differenti i presupposti essenziali su cui le medesime si fondano.
Più precisamente, nell'ipotesi in cui i danni siano causati da specie selvatiche protette, ai fini della responsabilità, trova applicazione – diversamente da quella in cui i danni sono invece causati da animali randagi – l'art. 2052 c.c.
Ciò in quanto, il criterio di imputazione della responsabilità – muovendo dalla superiore considerazione, secondo cui tali animali, in quanto protette, appartengono al patrimonio indisponibile dello Stato – va individuato nella proprietà o, comunque, nel potere di utilizzo dell'animale. Come, difatti, affermato dall'orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, la responsabilità per i danni provocati da animali selvatici deve essere imputata all'ente pubblico – Regione, Provincia, Ente, Parco, Associazione e così via – cui sono stati concretamente affidati, nel singolo caso concreto, anche in attuazione della L. n. 157 del 1992, i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata (sul punto, v. Corte di Cassazione, sez. VI III civ., ordinanza 02 ottobre 2020, n. 20997)
In tema di onore probatorio, infine, la giurisprudenza della Suprema Corte è pacifica nel ritenere che grava sul danneggiato la puntuale allegazione e dimostrazione che il pregiudizio lamentato sia stato causato dall'animale selvatico, il nesso di causalità tra l'agire dell'animale e l'evento dannoso subito, nonché – ai sensi dell'art. 2054, comma 1, c.c. – che lo stesso abbia fatto tutto il possibile per evitare il danno ovvero abbia adottato ogni opportuna cautela nella propria condotta. Per converso, grava in capo all'ente pubblico competente l'eventuale prova del caso fortuito, provando che la condotta dell'animale si sia posta al di fuori della propria sfera di controllo, quale causa del danno autonoma, eccezionale, imprevedibile e, in ogni caso, non evitabile neanche mediante l'adozione delle più adeguate e diligente misure di cautela (Corte di Cassazione, sez. III civ., ordinanza 06 luglio 2020, n. 13848).
Sul punto, la Suprema Corte, con specifico riferimento all'ipotesi assai frequente di danni derivanti da incidenti stradali tra veicoli ed animali selvatici, ha recentissimamente chiarito che, ai fini dell'applicabilità del criterio di imputazione della responsabilità ex art. 2052 c.c., la mera allegazione della presenza dell'animale sulla carreggiata non è sufficiente, neanche allorquando si sia verificato l'impatto tra l'animale ed il veicolo; essendo indispensabile la prova «…che la condotta dell'animale sia stata la "causa" del danno … di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno», mediante la dimostrazione di aver adottato «…ogni opportuna cautela nella propria condotta di guida (cautela da valutare con particolare rigore in caso di circolazione in aree in cui fosse segnalata o comunque nota la possibile presenza di animali selvatici) e che la condotta dell'animale selvatico abbia avuto effettivamente ed in concreto un carattere di tale imprevedibilità ed irrazionalità per cui - nonostante ogni cautela - non sarebbe stato comunque possibile evitare l'impatto…» (Corte di Cassazione, sez. VI III civ., ordinanza 14 ottobre 2022, n. 30294).