Civile

Ilva di Taranto, magistrati non sanzionati per le maxi liquidazioni agli amministratori

Per le S.U., sentenza n. 29201 depositata oggi, va apprezzata la correzione successiva dell’errore anche se la procedura seguita non è stata quella corretta

di Francesco Machina Grifeo

Le Sezioni unite civili, sentenza n. 29201 depositata oggi, hanno confermato l’assenza di responsabilità disciplinare, come riconosciuto dal Csm, per le due magistrate che avevano liquidato agli amministratori giudiziari dell’Ilva di Taranto la somma monstre di 139 milioni di euro a titolo di parcella. La Cassazione ha dunque respinto il ricorso del ministero della Giustizia valorizzando il comportamento successivo delle toghe che si erano affrettate a correggere i provvedimenti, riducendo le somme di un paio di zeri, sebbene per farlo avessero utilizzato una procedura ammessa soltanto per gli errori materiali (di calcolo) e non per quelli di diritto, come nel caso specifico.

Per la migliore comprensione della vicenda, scrive la Corte, è necessario ricordare che l’art. 3 Dpr n. 177 del 2015, sulle modalità di calcolo e liquidazione dei compensi degli amministratori giudiziari, prevede che i compensi devono consistere in una percentuale, calcolata sul valore del complesso aziendale, da calcolarsi per scaglioni. Nel caso di specie invece le percentuali erano state computate, per ciascuno scaglione, sempre in relazione all’intero valore aziendale, determinato in due miliardi di euro, così pervenendo, per un solo anno, ad importi abnormi.

Si tratta di un errore, spiegano i giudici, che “non è nel calcolo, ma nella selezione degli elementi giuridici da porre a fondamento dello stesso”. “È infatti errore di diritto quello che cade sul criterio di calcolo dettato dalla legge per giungere a una determinata quantificazione”. Tuttavia, scrive la Cassazione, l’attività giurisdizionale “è per sua natura esposta al rischio dell’errore”, ragion per cui il legislatore, “mosso dall’esigenza di salvaguardare l’indipendenza del magistrato nell’esercizio delle sue funzioni, ha stabilito che la violazione di legge, per assumere rilievo disciplinare, debba essere «grave»”. E ad essere giudicato, in sede disciplinare, è il comportamento del magistrato: la «grave violazione di legge» dunque «rileva non in sé, bensì in relazione alla condotta deontologicamente deviante posta in essere nell’esercizio della funzione».

E allora, la gravità dell’errata liquidazione del compenso non può dipendere unicamente dai valori monetari, ma deve raccordarsi alle “eccezionali” condizioni processuali (44 imputati, 1481 parti civili, 300 faldoni, 3700 pagine di sentenza) in cui è maturato l’errore. Non solo, con riguardo ai successivi provvedimenti di rettifica va apprezzato “l’intendimento delle due incolpate di operare la correzione nell’interesse degli imputati e dell’Erario”. Ragion per cui, il comportamento del magistrato diretto ad evitare che dal compimento di un proprio atto illegittimo si generi un effettivo pregiudizio non può reputarsi, in sé, privo di significato sul piano della fattispecie dell’illecito disciplinare, anche se – come nel caso – si è fatto un uso inappropriato della procedura di correzione.

In conclusione, per il Massimo consesso, è legittima la decisione della Sezione disciplinare del Csm che ha valorizzato la condotta delle incolpate, “attribuendo evidenza, oltre che alle eccezionali condizioni in cui vennero adottati i provvedimenti di liquidazione, alla decisione di far luogo, sebbene con uno strumento improprio, alla sollecita eliminazione degli errori che effettivamente affliggevano questi ultimi”.

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