Famiglia

Interesse del minore e genitorialità intenzionale, la Cedu arretra rispetto alla Consulta

Una recente pronuncia della Corte di Strasburgo rafforza le incertezze del diritto nazionale e allarga le lacune interpretative esistenti

di Bruno de Filippis *

L’interesse del minore è stato, come un “mantra”, infinite volte richiamato ed esaltato in leggi, sentenze e dottrina, da poter essere considerato principio ineludibile e insuperabile nel diritto di famiglia. Anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adottata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, all’art. 24, comma 2, afferma che è “preminente” la considerazione dell’interesse del minore in tutti gli atti che lo riguardano.

Una recente pronuncia della Corte di Strasburgo (AFFAIRE X c. ITALIE, Strasburgo, 9 ottobre 2025) sembra ridurre, se non negare, il valore del principio, rafforzando le incertezze del diritto nazionale e allargando le lacune interpretative esistenti. La Corte, infatti, ha affermato l’insussistenza di violazioni del diritto alla vita privata e familiare, in relazione all’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nel caso di una genitrice che, per effetto delle decisioni dello Stato italiano, aveva perso il legame con il proprio figlio intenzionale.

L’articolo 8 solennemente afferma che ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita familiare. Esso vieta ogni ingiustificata ingerenza dell’autorità pubblica e funge da elemento distintivo tra modelli di democrazia e sistemi che prescindano da essa, attribuendo all’Autorità poteri di ingerenza, se non invasione, di un campo strettamente privato, nel quale vivono i sentimenti e le motivazioni esistenziali più profonde. Nel caso esaminato dalla Corte, lo Stato italiano aveva annullato la trascrizione dell’atto di nascita da cui risultava la genitorialità della madre intenzionale, così privando la stessa di rapporti con il nato, fatto che, dopo cinque anni, aveva determinato una situazione di perdita irreversibile.

Dal punto di vista giuridico, la questione riguarda lo status filiationis del nato da procreazione assistita e la discriminazione in danno delle coppie same sex, che non deve e non può tradursi in discriminazione nei confronti dei figli.

Gli interventi della giurisprudenza italiana, costituzionale e di legittimità, sul tema sono numerosi.

Sin dal 1998 (sentenza 347), la nostra Corte Costituzionale evidenziava «una situazione di carenza dell’attuale ordinamento, con implicazioni costituzionali», invitando il Legislatore a intervenire.

La legge 40 del 2004, non certamente ispirata da favor per la PMA, riteneva necessario definire lo status del minore nato grazie a tecniche di fecondazione assistita e riconosceva responsabilità nei confronti dei nati ai soggetti che avessero fatto ricorso alle tecniche, così indirettamente dando rilievo alla figura del genitore intenzionale, privo di legami biologici con il nato.

Dopo ulteriori interventi del Legislatore italiano (2012-2013), volti a porre al centro i diritti del minore e ad affermare la parità tra i figli, comunque nati, la Corte Costituzionale, nel 2014 (sentenza 162) rafforzava il concetto secondo cui la famiglia non è solo quella tradizionale, sostenendo che «il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia».

Ancora, nel 2020, la medesima Corte (sent. 127) commentando il quadro legislativo vigente, affermava che il consenso alla genitorialità e l’assunzione della conseguente responsabilità nell’ambito di una formazione sociale idonea ad accogliere il minore dimostrano la volontà di tutelare gli interessi del figlio, garantendo «il consolidamento in capo al figlio di una propria identità affettiva, relazionale, sociale, da cui deriva l’interesse a mantenere il legame genitoriale acquisito, anche eventualmente in contrasto con la verità biologica della procreazione».

Il tema, considerata la sua importanza e il rilievo che assume nell’ambito dei diritti fondamentali della persona, continuava a essere oggetto di interventi costituzionali. Nel 2021 (sentenza 32), la Corte affermava che la tutela del preminente interesse del minore comprende la garanzia del suo diritto all’identità affettiva, relazionale, sociale, fondato sulla stabilità dei rapporti familiari e di cura e richiamava le pronunce della CEDU secondo cui va ravvisata la violazione del diritto alla vita privata del minore nel mancato riconoscimento del legame di filiazione tra lo stesso, concepito all’estero ricorrendo alla specifica tecnica della surrogazione di maternità, e i genitori intenzionali, proprio in considerazione dell’incidenza del rapporto di filiazione sulla costruzione dell’identità personale.

La sentenza richiamata concludeva affermando che i nati a seguito di PMA eterologa praticata da due donne versano in una condizione deteriore rispetto a quella di tutti gli altri nati solo in ragione dell’orientamento sessuale delle persone che hanno posto in essere il progetto procreativo e che essi, destinati a restare incardinati nel rapporto con un solo genitore, proprio perché non riconoscibili dall’altra persona che ha costruito il progetto procreativo, vedono gravemente compromessa la tutela dei loro preminenti interessi.

Nel 2022, la sentenza numero 79, contrastando l’argomento secondo cui il rapporto di genitorialità intenzionale può essere salvaguardato ricorrendo all’istituto dell’adozione in casi particolari (tra l’altro non esperibile in tutti i casi) sosteneva che quest’ultima non assicura all’adottato i medesimi diritti giuridici e la stessa condizione psicologica della genitorialità non adottiva. (Nel testo: «Se l’istituto in esame offre una forma di tutela degli interessi del minore certo significativa, nondimeno esso non appare ancora «del tutto adeguato al metro dei principi costituzionali e sovranazionali»).

Il punto di arrivo, nel nostro ordinamento, del percorso descritto si identifica con la sentenza costituzionale n. 68 del 2025, nella cui parte motiva si legge: «L’interesse del minore consiste nel vedersi riconoscere lo stato di figlio di entrambe le figure – la madre biologica e la madre intenzionale – che abbiano assunto e condiviso l’impegno genitoriale attraverso il ricorso a tecniche di procreazione assistita. In conclusione, questa Corte ritiene che il mancato riconoscimento – effettuato secondo le modalità previste dall’ordinamento (artt. 250 e 254 cod. civ. e d.P.R. n. 396 del 2000) − al nato in Italia dello stato di figlio di entrambe le donne che, sulla base di un comune impegno genitoriale, abbiano fatto ricorso a tecniche di PMA praticate legittimamente all’estero costituisca violazione: dell’art. 2 Cost., per la lesione dell’identità personale del nato e del suo diritto a vedersi riconosciuto sin dalla nascita uno stato giuridico certo e stabile; dell’art. 3 Cost., per la irragionevolezza dell’attuale disciplina che non trova giustificazione in assenza di un controinteresse; dell’art. 30 Cost., perché lede i diritti del minore a vedersi riconosciuti, sin dalla nascita e nei confronti di entrambi i genitori, i diritti connessi alla responsabilità genitoriale e ai conseguenti obblighi nei confronti dei figli».

Alla luce del quadro richiamato, la decisione della Corte di Strasburgo suscita sconcerto, capovolgendo l’idea secondo cui le Istituzioni e la cultura giuridica italiana sarebbero meno efficaci di quelle europee nella tutela dei diritti delle persone.

Se, in punto di diritto, è auspicabile che la Grande Camera giunga a conclusioni diverse, riaffermando i principi di pari dignità e diritti tra i nati e di rilevanza della genitorialità intenzionale, dal punto di vista umano non si può ignorare la rilevanza dei valori in gioco e delle conseguenze soggettive, in termini esistenziali, della negazione di profondi sentimenti genitoriali e di profonda necessità, per il nato, del senso effettivo della propria identità.

* Magistrato

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©