L’avvocato soccombente paga le spese sul valore della sua domanda, non del cliente
Lo ha stabilito la Cassazione, con l’ordinanza n. 31996 depositata oggi, accogliendo il ricorso del professionista che aveva agito anche in proprio per lite temeraria
In una causa di risarcimento danni contro un istituto assicurativo, se l’avvocato formula in proprio una domanda di risarcimento per lite temeraria, poi rigettata, la liquidazione delle spese di giudizio a suo carico va determinata in base all’importo da lui richiesto. Non rileva, invece, il valore della causa principale. Lo ha stabilito la Terza sezione civile, con l’ordinanza n. 31996 depositata oggi, accogliendo il ricorso del professionista.
Nel caso esaminato, l’avvocato – antistatario – aveva chiesto 1.000 euro “o minor importo” alla compagnia (ex art. 96 c.p.c.), sicché lo scaglione corretto era quello fino a 1.100 euro. La Corte di appello di Genova aveva invece fatto riferimento al valore della domanda principale: “quanto allo scaglione di riferimento – si legge –, il valore della causa si desume dalla domanda attorea e dalla somma riconosciuta in sentenza di euro 4.601,89, dunque ricompresa nello scaglione da euro 1.100,00 ad euro 5.200,00”.
Secondo il ricorrente, però, quel valore non corrispondeva alla sua domanda, distinta da quella della cliente e fondata su un autonomo credito risarcitorio. Da qui la questione posta alla Corte: quando l’avvocato agisce in proprio con una domanda ex art. 96 c.p.c., e questa viene rigettata, lo scaglione delle spese va definito sulla base della causa principale o del valore della domanda personale? La Cassazione sceglie la seconda opzione.
Resta allora da stabilire come si calcoli il valore della causa in presenza della formula “somma determinata o quella maggiore/minore che si riterrà di giustizia”. Un primo orientamento (Cass. 10984/2021) considera il valore indeterminabile; un secondo (Cass. 35966/2023) lo ritiene determinabile, vedendo nella clausola una domanda subordinata. Le Sezioni Unite (sent. n. 20805/2025) hanno poi chiarito che, se la somma indicata viene integralmente rigettata, ai fini delle spese si guarda comunque all’importo specificamente richiesto, ove ciò conduca a uno scaglione più favorevole.
Nel caso concreto, la formula usata non era “maggiore o minore”, ma solo “1.000 euro o quel minor importo”: il tetto massimo era dunque definito, e l’incertezza riguardava al più la soglia minima. Ne deriva che il valore era determinato in 1.000 euro, senza spazio per lo scaglione delle cause di valore indeterminabile.
Le spese di primo grado, liquidate in origine in 1.200 euro (scaglione 1.100–5.200), sono state così rideterminate in 400 euro, applicando lo scaglione fino a 1.100. Poiché il Tribunale le aveva già compensate a metà, la quota effettiva a carico dell’avvocato ricorrente scende a 200 euro.







