Comunitario e Internazionale

La pausa non è riposo se il dipendente può essere richiamato in servizio

Rileva l’impossibilità di poter gestire liberamente il tempo a disposizione

di Marina Castellaneta

La pausa concessa al dipendente, che non gli permette di gestire il proprio tempo perché tenuto a effettuare un eventuale intervento rapido, rientra nell’orario di lavoro e non può essere qualificata come periodo di riposo. È la Corte di giustizia dell’Unione europea a stabilirlo con la sentenza del 9 settembre (causa C-107/19), che ha al centro l’interpretazione della direttiva 2003/88 su taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro (recepita in Italia con Dlgs 66/2003, modificato dal 213/2004).

La controversia nazionale riguardava un vigile del fuoco della Repubblica Ceca che aveva diritto, nell’orario di lavoro giornaliero, a due pause per i pasti e un riposo di 30 minuti. Il vigile era tenuto a essere reperibile anche durante le pause e pronto a salire sul veicolo d’intervento entro due minuti. Tuttavia, le pause erano conteggiate nell’orario di lavoro solo se interrotte da una partenza per un intervento, mentre le altre non erano retribuite.

La Corte Ue in primo luogo si è occupata della qualificazione del periodo di pausa come orario di lavoro o come periodo di riposo, nozioni che sono proprie del diritto dell’Unione. In base alla direttiva, nell’orario di lavoro rientrano tutti i momenti in cui il lavoratore è a disposizione del datore, che deve assicurare pause ogni sei ore. Se un lavoratore, mentre è in pausa, non è sostituito da altro dipendente e se è tenuto a portare con sé un ricevitore per essere reperibile ed eventualmente interrompere la pausa per un intervento, è evidente che resta a disposizione dell’azienda.

Il periodo di guardia, in cui il lavoratore è a disposizione del datore, non è riposo, come confermato anche dalla circostanza che il dipendente doveva essere presente sul luogo di lavoro. «Tutto questo periodo - chiariscono i giudici – deve essere qualificato come orario di lavoro» in base alla direttiva.

Ma questa conclusione vale anche se il dipendente non è obbligato a rimanere sul luogo di lavoro perché, in tutti i casi in cui i vincoli imposti «siano di natura tale da pregiudicare in modo oggettivo e assai significativo la facoltà» di gestire liberamente il tempo, si è in presenza di un tempo che rientra nell’orario di lavoro.

Con un’ulteriore precisazione: la circostanza che le interruzioni dei periodi di pausa siano occasionali e imprevedibili non incide sulla qualificazione di questi periodi se il termine per riprendere l’attività professionale è tale da limitare in modo significativo e oggettivo la gestione del proprio tempo. Così va interpretata la direttiva e a questo devono attenersi i giudici nazionali disapplicando il diritto interno contrastante anche nei casi in cui la Cassazione dia altre indicazioni ai giudici di merito.

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