Il CommentoComunitario e Internazionale

COP30, tra Global Mutirão ed Ambizioni Ridotte

L’assenza di una riconosciuta leadership climatica, in grado di catalizzare e ravvivare il multilateralismo in ambito ESG, ha prodotto l’effeto che soltanto un terzo dei 194 Paesi partecipanti ha aggiornato i propri impegni nazionali di riduzione delle emissioni di CO2

di Pietro Massimo Marangio*

A dieci anni di distanza dall’Accordo di Parigi si è andata articolando e definendo, seppur alluvionalmente, la cornice regolamentare della finanza sostenibile, tra iniziative multilaterali – di cui le annuali Conferenze tra le Parti (COP) costituiscono le principali pietre miliari – e, per quel che più direttamente riguarda l’impatto per il nostro Paese, le iniziative legislative dell’Unione Europea.

In subjecta materia, tale decennio è stato testimone di una produzione regolamentare senza precedenti (organica per lo più limitatamente alle linee ispiratrici ed agli obiettivi più ambiziosi) che questa rubrica Fattore ESG cerca di razionalizzare e sintetizzare per i suoi lettori. E da tale osservatorio si registra un ribaltamento di prospettiva, soprattutto a partire da questo 2025 che volge al termine.

Se fino all’anno scorso, infatti, si poteva comunque cogliere in filigrana una certa convergenza tra i provvedimenti (multilaterali, eurounitari e di normativa, primaria e secondaria, domestica), adesso mi pare piuttosto che l’incrementata disorganicità ed il ritmo degli interventi ESG più recenti, che nei precedenti contributi ho già definito “sincopato”, costituiscano la cifra distintiva di tale produzione normativa e non rappresentino più soltanto quelle piccole oscillazioni (il “rumore” per dirla in termini statistici) lungo la traiettoria netta che delinea il trend costante di lungo periodo.

Con un capovolgimento, appunto, del rapporto tra regola (della direzione generale) ed eccezione (delle fluttuazioni lungo la curva). Soprattutto, si scorge, entro il predetto affastellamento di disposizioni normative sulla finanza climatica, un disaccoppiamento tra il percorso delineato dai provvedimenti multinazionali e quello tracciato dai provvedimenti eurounitari e domestici. E si assite a una battuta di arresto del multilateralismo climatico.

Ciò in quanto, naturalmente, la regolamentazione di mercati e intermediari finanziari non è calata dall’alto, a disciplinare asettici rapporti tra agenti economici, che si svolgano in un vacuum ideale di razionalità e perfetta simmetria informativa (come postula la teoria economica classica), bensì è permeata e “contaminata” dalle tensioni geopolitiche che, inter alia, incidono anche sulla traiettoria di una omogenea produzione normativa, deviandola. Basti pensare, ad esempio, alla guerra russo – ucraina ed al suo impatto sui costi dell’energia e sulle catene di fornitura globali. Inoltre, in questi tempi di torsioni sovraniste ed erosione della rule of law (su cui le democrazie liberali contemporanee sono state edificate), accade che i pregiudizi possano avere un peso specifico superiore a quello dell’evidenza scientifica. E che le assenze possano avere un significato anche maggiore delle partecipazioni (e dell’ottimismo della volontà a cui sono ispirate le dichiarazioni finali dei summit internazionali), soprattutto se promanano dal vertice politico degli Stati Uniti d’America. E grandi assenti alla COP30 non sono stati soltanto gli Stati Uniti (che non hanno inviato rappresentanti ufficiali), ma anche i capi di governo di Cina (benché, ad onor del vero, la delegazione cinese sia stata la più numerosa dopo quella dei brasiliani padroni di casa) e India, vale a dire dei Paesi principali emettitori di gas a effetto serra.

La COP30 si è tenuta a Belém, nella foresta amazzonica, tra il 10 e il 21 novembre scorsi e si è conclusa, con risultati definiti complessivamente deludenti – pur avendo adottato un pacchetto di circa 29 decisioni ufficiali che interessano, tra le altre cose:

• la materia dell’adattamento climatico;

• le misure per la ricapitalizzazione del “Fund for Responding to Loss and Damage” (FRLD, istituito due anni fa dalla COP28 di Dubai, cui avevo già accennato in un mio precedente contributo, e che a metà di quest’anno aveva raggiunto la somma di 788,8 milioni di dollari USA), definendo le condizioni operative per l’accesso al Fondo e le linee guida per la sua governance;

• la finanza climatica;

• i fondi multilaterali assumendo, in particolare, l’impegno a triplicare i finanziamenti pubblici per l’adattamento climatico in un arco temporale dilazionato nei prossimi dieci anni.

Tuttavia, probabilmente più rilevante di quel che è stato deliberato (rectius, declamato) dalla COP30, è ciò che non è stato stabilito, dal momento che l’accordo per la riduzione dell’utilizzo dei combustili fossili ha riguardato l’impegno volontario dei singoli Paesi aderenti alla Conferenza delle Parti, senza definire, tuttavia, alcuna metrica utile a misurare e monitorare nel tempo la predetta diminuzione. Quindi il bilancio della COP30 è negativo soprattutto sul fronte degli impegni di mitigazione climatica (piuttosto che su quello dell’adattamento). Si consideri che, in base al Rapporto 2025 delle Nazioni Unite sugli “Emission Gaps”, gli impegni di mitigazione climatica finora adottati sono gravemente inadeguati, dal momento che, pur applicando tali contrazioni, si verrebbe a determinare comunque un riscaldamento del pianeta di circa 2,6-3,1° C rispetto all’era preindustriale. A tale indecisione in prospettiva multilaterale, si contrappone l’ambizioso e preciso impegno assunto dall’UE, racchiuso nel programma legislativo “Fit for 55” e volto alla riduzione di emissioni di gas serra di almeno il 55% entro il 2030. Il target comunitario è senz’altro ambizioso, ma sarà da vedere se (ed eventualmente a quale costo) sarà raggiunto entro il prossimo lustro.

A proposito di (dichiarazioni di) impegni, pietre miliari, obiettivi e traiettorie (che, ad avviso di chi scrive costituiscono le principali key-words per studiare e raccontare l’evoluzione della finanza sostenibile), si può quindi concludere che il “Global Multirão”, vale a dire la dichiarazione finale patrocinata dal Presidente Lula da Silva e sottoscritta da tutte le Parti aderenti, annovera sicuramente tra i suoi risultati più rilevanti l’impegno a mobilitare, al fine di ottemperare al New Collective Quantified Goal (NQCG) definito l’anno scorso dalla COP29 (per cui rinvio a quest’altro articolo), un flusso complessivo (tra fondi pubblici e privati) di 1,3 trilioni di dollari USA all’anno per i prossimi 10 anni. Può essere anche segnalata l’enfasi posta dal Global Mutirão sulla “transizione giusta” (just transition), vale a dire il passaggio verso economie a basse emissioni che tenga conto dei diritti sociali, delle comunità vulnerabili e della protezione dei lavoratori colpita dalla transizione green.

Come già osservato, tuttavia, il principale motivo di insoddisfazione della COP30 consiste non soltanto nel non avere risolto, ma nel non avere nemmeno affrontato il tema delle modalità con cui le Parti della Conferenza, dai livelli così eterogenei tra loro di sviluppo industriale, intendano gestire il percorso di decarbonizzazione, non avendo definito alcuna roadmap vincolante. E l’assenza di una riconosciuta leadership climatica, in grado di catalizzare e ravvivare il multilateralismo in ambito ESG, ha prodotto l’effeto che soltanto un terzo dei 194 Paesi partecipanti ha aggiornato i propri impegni nazionali di riduzione delle emissioni di CO2.

_______
*Avv. Pietro Massimo Marangio, Partner Eversheds Sutherland