Monopoli, Sussidi e Silicio: l’Europa del “Chips Act” sta finanziando il passato?
Il Chips Act è davvero calibrato per sostenere startup fabless europee su progetti “chip AI” di nuova generazione? Oppure continua a favorire progetti capital-intensive orientati sui grandi incumbent manifatturieri?
Da ingegnere elettronico, osservo il dibattito pubblico sui semiconduttori con un misto di frustrazione e preoccupazione. Politici, economisti e giuristi parlano di “chip” come se fossero un’unica entità, un bene indifferenziato come il grano o il petrolio. Non lo sono. E temo che, nel tentativo di risolvere un problema reale, l’Europa stia investendo miliardi per risolverne un altro, forse già superato.
È fondamentale ricordare che un “chip” non è mai solo un “chip”. Un microcontrollore (MCU) per un alzacristalli elettrico o per una lavatrice è progettato per essere un mulo: deve costare pochi centesimi, sopportare vent’anni di funzionamento in condizioni ostili, e consumare pochissima energia. La crisi che abbiamo vissuto tra il 2021 e il 2023 — quella che ha fermato le catene di montaggio dell’automotive e dell’industria — è stata essenzialmente una crisi di questi componenti, i cosiddetti nodi maturi.
La risposta dell’Unione Europea, il Regolamento (UE) 2023/1781, noto come “European Chips Act”, rappresenta una mossa politicamente comprensibile per garantire la nostra “autonomia strategica” su tali componenti.
Dal punto di vista giuridico, però, il quadro è molto più complesso. Per decenni, l’impostazione di fondo della politica industriale europea è stata improntata a una rigorosa applicazione dell’Articolo 107 TFUE: non un divieto assoluto, ma un insieme di regole ed eccezioni che, nella pratica, ha limitato in modo significativo la possibilità degli Stati membri di intervenire in modo massiccio nei mercati strategici. Era la logica che impediva, per esempio, alla Germania di sovvenzionare pesantemente le proprie industrie a scapito di quelle italiane, francesi o spagnole.
Qui avviene la rottura. Il Chips Act crea un quadro normativo che, combinando gli strumenti IPCEI e nuove categorie come le first-of-a-kind facilities, amplia in modo sostanziale lo spazio per deroghe agli aiuti di Stato. In pratica offre agli Stati membri una base giuridica molto più ampia per sostenere finanziariamente progetti semiconduttori di grande scala, aprendo di fatto una fase di competizione sussidiaria interna giustificata dalla minaccia esterna.
Il punto è che, mentre mettiamo in sicurezza l’industria di oggi, rischiamo di ignorare la guerra tecnologica che definisce l’economia di domani: la guerra per l’hardware dell’Intelligenza Artificiale.
Qui non si parla più di “muli”, ma di “cavalli da corsa” neurali. Una GPU Nvidia, progettata per l’addestramento di modelli AI, è un’architettura di calcolo parallelo estremamente sofisticata.
Grazie alla piattaforma software CUDA, Nvidia non vende soltanto hardware: ha costruito un ecosistema chiuso che è diventato uno standard de facto. Oggi, per la quasi totalità degli attori che non dispongono di infrastrutture proprietarie, addestrare modelli AI avanzati significa affidarsi a Nvidia. Il risultato è un monopolio tecnologico e di fatto anche strategico.
E questo non è solo un problema di costi: è una questione di governance dell’innovazione. Nvidia, attraverso la propria roadmap, orienta l’intero settore. In un contesto simile, la risposta tradizionale europea non sarebbe il sussidio, ma l’Antitrust. Sarebbe un caso da manuale per la DG COMP, da analizzare sotto il faro dell’Articolo 102 TFUE sull’abuso di posizione dominante.
Nel frattempo, i veri protagonisti dell’AI — Google, Amazon, Microsoft e OpenAI — non aspettano certo l’esito delle indagini. Stanno combattendo questa guerra con logiche industriali, investendo miliardi nella progettazione dei propri chip custom (ASIC). Google ha le sue TPU, Amazon ha Trainium, Microsoft ha Maia. Lo fanno per convenienza economica: abbattere i costi operativi, ottimizzare l’inferenza (l’utilizzo reale dell’AI, che su larga scala ha un peso economico superiore al training) e soprattutto liberarsi dalla dipendenza da un unico fornitore.
Ed è qui che emerge il cortocircuito tecnico-giuridico. Sebbene il Chips Act dichiari l’ambizione di rafforzare l’intera catena del valore, nella pratica la maggior parte dei progetti oggi finanziati riguarda la capacità produttiva su nodi maturi, indispensabili per automotive e industria. Il rischio, quindi, è di concentrare risorse ingenti sulla resilienza del presente più che sulla competizione tecnologica del futuro.
Il vero interrogativo che dovremmo porci è un altro:
- il quadro del Chips Act — pur includendo strumenti per il design — è davvero calibrato per sostenere startup fabless europee che progettano chip AI di nuova generazione?
- Oppure, nella pratica, continua a favorire soprattutto i progetti capital-intensive orientati alla costruzione di impianti, cioè i grandi incumbent manifatturieri?
Il pericolo è evidente: potremmo ritrovarci con un’industria automobilistica europea perfettamente rifornita dei microcontrollori necessari, ma costretta a pagare una tassa tecnologica permanente a Nvidia o Google per ogni singola funzione “intelligente” a bordo dei veicoli. Questo non sarebbe autonomia strategica. Sarebbe semplicemente una dipendenza con un nome diverso.
________
*Giuseppe Accardo, POLLICINO & PARTNERS AIDVISORY




-U20483438260BSG-735x735@IlSole24Ore-Web.jpg?r=86x86)
-U61444523400GRN-735x735@IlSole24Ore-Web.jpeg?r=86x86)

