Nessuna legge impone all'avvocato di avere uno studio
L'avvocato è tenuto ad avere un domicilio, ossia un "recapito" dove essere reperibile e ricevere gli atti ma non è tenuto ad avere un vero e proprio studio
L'avvocato non è tenuto ad avere uno studio. La legge impone soltanto che lo stesso si doti di un ‘domicilio', ossia di un recapito dove essere reperibile e ricevere gli atti. Così il Consiglio di Stato con la sentenza n. 653/2021 accogliendo il ricorso intrapreso dal Consiglio dell'ordine degli Avvocati di Parma contro la sentenza del Tar Emilia Romagna che, dando ragione al comune, imponeva di fatto ad alcuni studi legali l'obbligo di eliminare le barriere architettoniche.
I fatti
La vicenda origina, nello specifico, da due delibere consiliari del comune di Parma che obbligavano gli studi legali interessati a sostenere l'onere delle opere relative all'eliminazione delle barriere architettoniche.
L'ordine degli avvocati locali proponeva impugnazione al Tar contro tali delibere.
Tuttavia, il giudice amministrativo dava ragione al comune ritenendo che ai fini della disciplina delle barriere architettoniche il concetto di luogo aperto al pubblico andasse inteso in senso elastico e dunque comprensivo anche dei luoghi privati chiusi alla generalità delle persone ma accessibili a una data categoria di aventi diritto, come ad esempio, lo studio di un avvocato.
Nello specifico, osservava il Tar, che la norma riguardava solo due particolari categorie di avvocati, i difensori di ufficio e gli abilitati al gratuito patrocinio, i quali fanno parte della più generale categoria dei professionisti legati a una funzione o convenzione in base alla quale ricevono un pubblico indistinto.
Il Tar evidenziava ancora che i difensori di queste due categorie vi appartengono per loro scelta, avendo richiesto l'iscrizione nel relativo elenco, e riteneva che la norma che impone loro le opere per il superamento delle barriere non appare "illogica né irragionevole, in quanto realizzerebbe una sorta di equilibrio fra il vantaggio della corresponsione del compenso da parte dello Stato e l'onere relativo". Oltre al fatto che la norma sarebbe conforme alla logica della legge sul superamento delle barriere, "che coinciderebbe con la volontà di consentire al disabile di usufruire, senza impedimenti dati dalle barriere, della prestazione del professionista recandosi nello studio di questi".
Il ricorso degli avvocati
L'ordine impugnava la sentenza criticando innanzitutto la decisione per avere qualificato in generale come luogo aperto al pubblico lo studio dell'avvocato e sottolineando che pur essendo la funzione del difensore di tipo pubblicistico, le norme secondo le quali essa viene svolta rimangono privatistiche, "dato che l'avvocato non è obbligato ad avere uno studio, ma soltanto un domicilio professionale, che può coincidere con l'abitazione e non è aperto indiscriminatamente a terze persone".
Inoltre, lamentava il Coa, l'aver ritenuto ragionevole la norma impugnata in ragione di un presunto vantaggio economico che i difensori delle categorie indicate ricaverebbero dall'appartenenza ad esse, facendo notare invece che "la retribuzione del patrocinio a spese dello Stato è modesta e corrisposta con ritardo, e che la difesa d'ufficio deve essere pagata dal cliente, e viene pagata dallo Stato solo ove vi siano i presupposti del patrocinio a spese di questo".
Infine, ricordava come l'accesso alla difesa può essere ottenuto anche se è l'avvocato a recarsi personalmente dal cliente.
L'avvocato non ha l'obbligo di uno studio
Per palazzo Spada le tesi dell'ordine sono fondate e vanno accolte.
Anzitutto, afferma infatti il Cds, né la legge professionale 31 dicembre 2012 n. 247, in particolare l'articolo 7 di essa, relativo al "domicilio", né il codice deontologico forense obbligano l'avvocato, per esercitare la sua professione, ad avere la disponibilità di un ufficio a ciò dedicato.
In particolare, l'articolo 7 della l. n. 247/2017 prevede solo che egli abbia un "domicilio", ovvero in termini semplici un recapito ove essere reperibile e ricevere gli atti, ma non vieta che esso, al limite, coincida con la propria abitazione.
Pertanto, l'apertura di uno studio come comunemente inteso rientra nella libera scelta del professionista.
Inoltre, lo studio legale, anche quando esiste, non è di per sé luogo pubblico o aperto al pubblico, come si desume, per implicito, dalla costante giurisprudenza penale, secondo la quale commette il reato di violazione di domicilio previsto dall'articolo 614 c.p. chi acceda allo studio di un avvocato, o vi si trattenga, contro la volontà del titolare (cfr. da ultimo Cass. n. 36767/2018).
Senza contare che, come sostenuto dalla difesa, l'incarico professionale si può sempre svolgere con modalità che prescindono dalle barriere architettoniche, posto che la legge n. 247/2012 e il codice deontologico non vietano in generale che il difensore, per svolgere il proprio mandato, possa recarsi presso la parte, in un luogo che essa ritiene adeguato alle proprie esigenze, anche di salute, e in particolare non vietano certo che egli si rechi al domicilio di un disabile il quale se ne possa allontanare solo con difficoltà.
Nessun equilibrio tra "presunti vantaggi" e oneri
Errato il punto di vista del Tar anche sull'eventuale "equilibrio" fra il vantaggio del compenso ricevuto dallo Stato e l'onere di sostenere le spese per l'eliminazione delle barriere architettoniche.
In primo luogo, precisa infatti il Consiglio, l'attività del difensore d'ufficio è retribuita dall'assistito, e non dallo Stato, e quindi non si può in assoluto ritenere che dai relativi incarichi provenga all'avvocato un vantaggio economico a carico delle casse pubbliche, che debba essere compensato con una qualche forma di contropartita.
E anche se un vantaggio economico deriva all'avvocato iscritto nell'elenco degli abilitati al patrocinio a spese dello Stato, che corrisponde il relativo onorario, è vero altresì che tale retribuzione "non risulta particolarmente favorevole" ed è notoriamente "liquidata con notevole ritardo" tanto che il legislatore ha introdotto la facoltà di compensare i crediti con i debiti fiscali e previdenziali dell'avvocato proprio per ovviare a questo limite.
Per cui, anche laddove dovesse sussistere un presunto vantaggio (e solo per gli avvocati abilitati al gratuito patrocinio), lo stesso oltre che non particolarmente rilevante, sarebbe del tutto eventuale, perché dipenderebbe dalla clientela che il professionista in concreto riesca ad acquisire.
Non appare, quindi, giustificato, in termini di proporzionalità, conclude il Consiglio di Stato accogliendo l'appello, "che a fronte di un vantaggio solo potenziale sia imposto un esborso certo ed immediato".