Politica debole? Sentenze confuse
La giustizia è amministrata in nome del popolo. Una scelta di campo forte e solenne, consacrata all’articolo 101 della Costituzione, non a caso ripresa all’articolo successivo, che affida alla legge il compito di regolarne la partecipazione diretta.
Dunque, siamo noi attori e destinatari delle decisioni giudiziarie. Ma che accade se i cittadini non riescono a comprenderle e perdono fiducia nella magistratura?
Le statistiche insegnano come l’Italia si discosti in basso – significativamente – dalla media degli altri paesi europei quanto a intelligibilità dei provvedimenti dei giudici. Una dura presa d’atto, dagli effetti noti e dalle cause più incerte. E infatti il minore appeal produce almeno due conseguenze distorsive.
La prima, di natura economica, è la perdita di consistenti chance d’investimento e di attrazione di capitali e risorse: non solo come riflesso di una litigiosità esasperata e spesso strumentale, ma soprattutto per la durata eccessiva del contenzioso, connotato dall’inestirpabile incertezza del risultato. La seconda, a valenza psicosociale, alla lunga più temibile, consiste nella non credibilità dell’istituzione, nel convincimento semplificato dell’ingiustizia di fondo della legge, fino al diffuso sentimento dell’inutilità del comando normativo e della convenienza della trasgressione, legata alla non deterrenza della minaccia. Un virus purtroppo pervasivo, presente in ogni ramo dell’ordinamento, ma particolarmente inquietante nel settore penale.
Ma perché accade tutto ciò? Ovviamente non esiste un’unica risposta, ma un concorso di fattori che giocano a sfavore e si influenzano reciprocamente. Una prima ragione riposa sull’instabilità parlamentare. La mancanza di maggioranze forti politicamente e il periodo limitato del mandato per le ricorrenti crisi condizionano negativamente il processo di formazione della legge, che diventa il frutto di mediazioni e tecniche di compromesso. Il testo finale è così, inevitabilmente, confuso ed esposto alla necessaria opera di interpretazione. E qui subentra il secondo motivo: la giurisprudenza, alla quale compete l’applicazione della norma con la correlata attività di chiarificazione, è incline (e si compiace) a riempire di contenuti i presunti vuoti di tutela lasciati dal legislatore, finendo per creare, supplendo. Un cortocircuito autoreferenziale, in virtù della presenza della (ritenuta) debolezza e incompetenza della classe politica. Gli esempi potrebbero sprecarsi, ma forse due sono più significativi degli altri.
Nell’abuso d’ufficio, il requisito della violazione di legge è stato esteso fino a ricomprendervi l’articolo 97 della Costituzione; nel falso in bilancio, il parametro valutativo è stato fatto rientrare dalla finestra e costituisce reato, a dispetto della riforma. Il problema si trasforma così da stilistico a sostanziale, in quanto il giudice attribuisce un significato valoriale al precetto, tramutandosi nel detentore reale delle scelte di politica criminale.
A ben vedere, andando a valle del fenomeno, tale espansione punitiva innesca un meccanismo di imprevedibilità in concreto della decisione: cioè, il destinatario della norma, al momento del suo agire, non è in grado di percepire con chiarezza il perimetro relativo di liceità, poiché esso è esposto alla dilatazione applicativa giurisprudenziale. Una deriva pericolosa sul fronte della legalità, costata già all’Italia sentenze di rimbrotto della Corte europea dei diritti umani. Non da ultimo, il tasso di mutevolezza della pronuncia all’interno del processo penale è incredibilmente alto; a distanza di anni, una riforma in appello o in Cassazione dalla condanna all’assoluzione (o alla prescrizione) alimenta il senso di ingiustizia e il convincimento dell’incertezza naturale, sia per il colpevole che per la vittima. Con la tentazione di fare i furbi e sfruttare un quadro complessivo non esaltante.
E i rimedi? Sono come sempre nella semplicità, anzi banalità del quotidiano: ognuno torni a fare il proprio mestiere, il legislatore come il giudice. Ma qui l’ossimoro è d’obbligo: proprio perché semplice, è difficile.