Self-preferencing, le Big Tech e la violazione antitrust
Il self-preferencing, ovvero la presunta violazione di diritto antitrust, in Europa ha guadagnato la luce dei riflettori con la pronuncia della Commissione nel caso Google Shopping, pronuncia che, nella sostanza, è stata confermata dalla Corte Generale lo scorso 10 novembre 2021. Il self-preferencing è anche il fondamento della sanzione di oltre un miliardo di euro irrogata dall'Autorità Antitrust italiana ad Amazon
La valorizzazione dei propri prodotti e servizi nell'intento di accrescere i profitti è la più elementare regola di qualunque attività economica. Tuttavia, a leggere alcune recenti pronunce, ciò non potrebbe lecitamente applicarsi ai grandi colossi tecnologici.
Stiamo parlando del c.d. self-preferencing, presunta violazione di diritto antitrust che in Europa ha guadagnato la luce dei riflettori con la pronuncia della Commissione nel indagine sulla concorrenza nei mercati digitali, giudicò il trattamento più favorevole riservato a venditori terzi che fruivano dei servizi logistici di Amazon rispetto a quelli che si rivolgevano a società di logistica concorrenti come una violazione della normativa antitrust statunitense (segnatamente l'art. 2 dello Sherman Act).
Il ragionamento per arrivare a concludere per l'illiceità del self-preferencing differisce però da quello del caso italiano: mentre, come visto più sopra, l'Autorità italiana ritenne di trovarsi davanti a una pratica discriminatoria, la Judiciary House ritenne di dover ricondurre il comportamento di Amazon alle cc.dd. pratiche leganti che, come probabilmente noto, consistono nel subordinare l'acquisto di un prodotto o la fruizione di un servizio a un'altra prestazione. Ma se non vi è uniformità di inquadramento della fattispecie da parte delle diverse autorità a tutela della concorrenza, vi è concordia nel ritenere illecito il fare leva sulla propria posizione dominante in un mercato per ottenere un vantaggio rispetto ai propri concorrenti nei mercati collegati.
In tal senso lo stesso DMA (Digital Market Act) il cui articolo 6, lett. d) vieta espressamente ai gatekeepers di favorire i propri prodotti [2] . Lo scopo della nuova disciplina sarebbe quello di bloccare a monte eventuali comportamenti anticoncorrenziali dei colossi della rete. Colossi che, come il quotidiano ci insegna, hanno la tendenza a creare veri e propri "ecosistemi", ovvero un'interazione tra i servizi offerti che rende difficile se non impossibile a terze parti l'offerta di servizi alternativi.
Ad ogni modo, pare essere eccessivo prescindere dalla valutazione delle circostanze del caso concreto.
La Corte Generale nel caso Google Shopping sottolineò che i benefici pro-concorrenziali derivanti dall'innovazione portata dal sistema di Google non fossero sufficienti a controbilanciare gli effetti di foreclosure della condotta. Ma se è vero che tramite gli algoritmi è possibile che una piattaforma ibrida sia in grado di favorire la propria offerta senza che ciò sia in alcun modo collegato alla qualità del servizio offerto, in altri casi si ha una sana concorrenza sul merito che stimola le imprese a innovarsi.
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*A cura di Francesca Sutti, Partner, Studio Legale WLex
[1] Secondo Google il self-preferencing posto in essere non avrebbe dunque potuto rappresentare un illecito poiché non erano soddisfatti i requisiti previsti perché possa essere riscontrato un rifiuto a contrarre, cf. Caso Bronner (C-7/97)
[2] "refrain from treating more favourably in ranking services and products offered by the gatekeeper itself or by any third party belonging to the same undertaking compared to similar services or products of third party and apply fair and non-discriminatory conditions to such ranking".