Amministrativo

Giudicato di annullamento: riedizione del potere solo nel rispetto del principio dell'"one shot temperato"

Il Consiglio di Stato con la sentenza n. 3480 ritorna sull'onere della Pa di esaminare la "pratica" una sola volta

di Pietro Alessio Palumbo

In applicazione del principio del cosiddetto “one shot temperato”, per evitare che l'amministrazione possa riprovvedere per un numero infinito di volte a ogni annullamento in sede giurisdizionale, è dovere della stessa Pa riesaminare una seconda volta l'affare nella sua “interezza”; sollevando tutte le questioni rilevanti, con definitiva preclusione per l'avvenire, e, in sostanza, di tornare a decidere sfavorevolmente per il privato. Tale principio – ha evidenziato il Consiglio di Stato (sentenza n.3480/2022) - costituisce il punto di equilibrio tra due opposte esigenze: la garanzia di inesauribilità del potere di amministrazione attiva e la portata cogente del giudicato di annullamento con i suoi effetti conformativi.

I punti fermi del ragionamento del Cds

Il cardine è quello per cui a seguito dell’adozione di una statuizione demolitoria - soprattutto ove incidente su un interesse cosiddetto “pretensivo”, volto, cioè, al rilascio di un provvedimento ampliativo della sfera giuridica del privato - la potestà di provvedere viene restituita nuovamente all’amministrazione perché essa si ridetermini in proposito. Tuttavia il principio di continuità dell’azione amministrativa e la tendenziale “inesauribilità” del potere esercitato, può comportare che l’amministrazione coinvolta riprovveda un numero non predeterminato di volte.

In via di pura teoria, infatti, nulla osta a che, rideterminandosi, l’amministrazione pubblica sia libera di porre a sostegno del proprio convincimento elementi “nuovi” non oggetto della propria antecedente delibazione vulnerata dal giudicato e, per tal via, di riconfermare il contenuto dispositivo annullato. È tuttavia ovvio che, potendo l’amministrazione pronunciarsi un numero di volte infinito sullo stesso affare, laddove questa ogni volta ponesse a sostegno del “nuovo” provvedimento fatti “nuovi” in quanto non precedentemente esaminati, verrebbe vanificata la portata accertativa e soprattutto conformativa delle decisioni del Giudice Amministrativo.

Ogni controversia sarebbe destinata, pertanto, a non concludersi mai, con un definitivo difettoso accertamento sulla spettanza o meno del “bene della vita” al privato che abbia fatto ricorso alla giustizia. Per tutto ciò occorre che la controversia fra l'amministrazione e l'amministrato trovi a un certo punto una soluzione definitiva; e dunque occorre impedire che la pubblica amministrazione proceda più volte all'emanazione di nuovi atti, in tutto conformi alle statuizioni del giudicato, ma egualmente sfavorevoli all’originario ricorrente, in quanto fondati su aspetti sempre diversi del rapporto, non toccati dal giudicato. Interrogandosi su come conciliare dette opposte esigenze, rappresentate dalla garanzia della inesauribilità del potere di amministrazione attiva e dalla portata cogente del giudicato, il punto di equilibrio va quindi individuato imponendo all'amministrazione - dopo un giudicato di annullamento da cui derivi il dovere ovvero la facoltà di provvedere di nuovo - di esaminare l'affare nella sua completezza, sollevando, una volta per sempre, tutte le questioni che ritenga rilevanti; dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente; neppure in relazione a profili prima non esaminati.

L'onere in capo all'amministrazione: esaminare la pratica nella sua totalità

Da tutto ciò discende l’onere dell’amministrazione, dopo il giudicato, di esaminare la pratica nella sua totalità; con la specifica conseguenza che, una volta rinnovato il diniego, non può più assumere ulteriori provvedimenti sfavorevoli per i profili non esaminati. Questo criterio secondo il Consiglio di Stato appare il più equo contemperamento, o quantomeno il migliore che sia stato sinora individuato, tra esigenze all’apparenza inconciliabili: la “forza” della res iudicata e la stessa funzione ed utilità di quest’ultima, la continuità del potere amministrativo ai sensi dell’articolo 97 della Costituzione, ed il principio di ragionevole durata del processo nel rispetto dell’articolo 111 della Carta Costituzionale. Pertanto, se la prima rieffusione del potere è tendenzialmente “libera”, le eventuali ulteriori valutazioni che seguano a un giudicato amministrativo non possono giovarsi di materiale cognitivo prima non esaminato, né fondarsi su una motivazione diversa. A ben vedere nell’Ordinamento italiano non trova riconoscimento il cosiddetto “one shot” così come ammesso in altri Ordinamenti giuridici.

Detta regola prevede infatti che l’amministrazione possa pronunciarsi negativamente una sola volta, facendo in detta occasione emergere tutte le possibili motivazioni che si oppongono all’accoglimento della istanza del privato. Nel sistema italiano il principio in parola è stato, a ben vedere, “temperato”. Si è, infatti, costantemente affermato che l'annullamento di un provvedimento amministrativo a carattere discrezionale, che abbia negato la soddisfazione di un interesse legittimo pretensivo, non determina la sicura soddisfazione del bene della vita, ma obbliga semplicemente l'amministrazione a rinnovare il procedimento tenendo conto della portata conformativa della sentenza.

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