Diffamazione via social e allusioni “piccanti”: l’offesa non si presume per l’attinenza al sesso
Secondo la Cassazione i giudici di merito hanno errato nel ritenere di sicura offensività alla reputazione di una persona divulgare che abbia partecipato a una serata a luci rosse in quanto non definisce una sua tendenza
In tema di diffamazione a mezzo social la Corte di Cassazione - con la sentenza n. 30385/2025 - ha chiarito che la valutazione sull’offensività delle espressioni veicolate in rete deve fondarsi su un accertamento rigoroso della loro effettiva portata denigratoria, alla luce del significato letterale delle parole, del contesto comunicativo e della loro capacità di offendere l’altrui reputazione secondo un metro oggettivo. In particolare, l’attribuzione di condotte sessuali non convenzionali, se riferite a un singolo episodio e prive di carattere abitudinario, non può automaticamente integrare un’offesa all’onore della persona, salvo che siano accompagnate da giudizi implicitamente svalutativi. In tal senso, l’errore di prospettiva del giudice di merito che desume la lesività da una presunta “disinibizione oltre i limiti” non definita normativamente, integra vizio di motivazione.
La pronuncia trae origine dalla condanna inflitta all’autore di un post per il reato di diffamazione mediante l’uso del proprio profilo social, con cui replicava pubblicamente a una missiva privata ricevuta dalla ex moglie. Nel post incriminato, l’uomo attribuiva alla donna la partecipazione a una serata “a luci rosse”, durante la quale avrebbe acquistato oggetti erotici. Ritenuta tale comunicazione lesiva dell’onore della persona offesa, il Tribunale prima, la Corte d’appello poi, ne avevano affermato la responsabilità penale.
L’imputato ricorreva in Cassazione. La Suprema Corte, rilevata la prescrizione del reato, ha annullato la sentenza agli effetti penali, ma ha esaminato il ricorso sul piano civilistico, annullando sul punto la sentenza con rinvio al giudice civile. Il cuore innovativo della decisione risiede nella raffinata analisi del concetto di offensività nell’ambito della diffamazione via social, in particolare quando l’attribuzione lesiva si fonda su elementi legati alla vita sessuale privata della persona offesa. La Corte di Cassazione ha chiarito che non è sufficiente il contenuto “sessuale” di una affermazione: è necessaria una valutazione contestualizzata, che tenga conto del significato proprio delle parole usate, della frequenza con cui la condotta è attribuita, del contesto comunicativo e della percezione sociale delle pratiche descritte. Su tali coordinate, nel caso di specie, la Corte ha ritenuto erronea la valutazione operata dai giudici di merito che avevano desunto un giudizio negativo implicito dalla sola circostanza che l’imputato avesse riferito della partecipazione della ex moglie a una “serata a luci rosse”. La descrizione di un singolo episodio, per quanto relativo a comportamenti intimi o non convenzionali, non equivale di per sé a una lesione della reputazione, soprattutto in assenza di espressioni che ne connotino una dimensione moralmente riprovevole o abituale. Anzi, la Cassazione denuncia un salto logico nella motivazione della Corte d’appello, che da un comportamento isolato (partecipazione a un evento) deduceva una presunta “dedizione” abituale a festini a sfondo erotico. Forzatura logica che sfocia in un vizio motivazionale manifesto. Il valore discriminante delle parole non può prescindere dal contesto semantico e sociale in cui vengono pronunciate: ciò che può apparire moralmente inopportuno per taluni, può non ledere la reputazione secondo canoni oggettivi. Esemplare, in tal senso, il riferimento a precedenti in cui il termine “farfallone” o “playboy” è stato considerato compatibile con la continenza, poiché riconducibile a una valutazione critica ma non offensiva. La Corte censura il giudice di merito per aver liquidato sbrigativamente la tesi difensiva, secondo cui il post era stato pubblicato immediatamente dopo una mail privata contenente accuse ingiuste e lesive (relativamente al ruolo genitoriale dell’imputato e a presunti abusi di alcol). Secondo la Corte, il mancato scrutinio effettivo del nesso temporale e causale tra l’evento scatenante e la reazione diffamatoria si traduce in una carenza motivazionale, soprattutto alla luce del fatto che la provocazione può derivare anche da condotte extra-penali, purché obiettivamente ingiuste e suscettibili di suscitare uno stato d’ira. Non si tratta, dunque, di giustificare qualsiasi sfogo emotivo, ma di misurare l’eventuale esimente (o meglio, la scusante) alla luce di parametri oggettivi e temporali stringenti. È richiesto, infatti, che l’offesa sia una reazione immediata a un fatto ingiusto e non una mera “vendetta” premeditata. In conclusione può affermarsi che la sentenza traccia un solco interpretativo significativo, che invita i giudici di merito a valutare con maggiore precisione semantica e contestuale la portata offensiva di espressioni veicolate via social, e a non trascurare, in sede di ricostruzione soggettiva del fatto, il peso di condotte provocatorie antecedenti, anche se non penalmente rilevanti. Ne deriva una attenzione per il principio di offensività sostanziale, come presidio contro derive punitive automatiche che ignorano le sfumature dei rapporti umani e delle dinamiche relazionali.