Abuso psicologico e discriminazione: per la FIGC sono responsabili allenatore, direttivo e società sportiva
Nel rispetto dell’art. 16, co. 2, D.lgs. 39/2021 e delle Linee Guida Safeguarding FIGC, la Società sportiva ha il dovere di agire “in concreto” per predisporre tutte le misure idonee a prevenire il verificarsi di abusi, violenze e discriminazioni
La Corte Federale FIGC a Sezioni Unite con la sentenza n. 92 del 17 marzo 2025 si è pronunciata sulle fattispecie di abuso psicologico e discriminazione compiute da un allenatore a danno dei propri atleti Under 15, ritenendo responsabili degli episodi l’allenatore, la società sportiva e il presidente della società medesima.
Tale pronuncia presenta diversi spunti di riflessione rispetto alla definizione della fattispecie di abuso psicologico e alla natura della responsabilità dei soggetti coinvolti.
Riguardo all’abuso psicologico è utile ricordare che l’Osservatorio Permanente del CONI nei “Principi Fondamentali per la prevenzione e il contrasto dei fenomeni di abuso, violenza e discriminazione” ha elencato le seguenti fattispecie rilevanti ai fini delle politiche di safeguarding:
a) abuso psicologico;
b) abuso fisico;
c) molestia sessuale;
d) abuso sessuale;
e) negligenza,;
f) incuria;
g) abuso di matrice religiosa;
h) comportamenti discriminatori;
i) bullismo;
j) cyber bullismo;
Tali fattispecie sono state riprese anche dalle Linee Guida per la predisposizione dei modelli organizzativi e di controllo dell’attività sportiva e dei codici di condotta FIGC (come anche dalle Linee guida adottate dalle altre Federazioni sportive nazionali, dalle Discipline sportive associate e dagli Enti di promozione sportiva), che impongono ai tecnici e ai dirigenti sportivi di rispettare i diritti di tutti i tesserati garantendo il diritto alla salute e al benessere psico-fisico degli stessi (art. 1 delle suddette Linee Guida FIGC).
Ebbene, concentrando l’attenzione proprio sull’abuso psicologico, la Corte Federale FIGC a Sezioni Unite ha ufficialmente chiarito che esso si concretizza in mancanza di rispetto, confinamento, sopraffazione e isolamento che possono incidere sul senso di dignità, identità e autostima del tesserato.
Nel caso analizzato dalla Corte Federale FIGC l’abuso psicologico si era manifestato nel costante utilizzo di espressioni denigratorie, parole intimidatorie ed offensive rivolte agli atleti dall’allenatore, durante gli allenamenti, le partite e all’interno dello spogliatoio.
Oltre all’abuso psicologico, il tecnico è anche stato considerato autore di comportamenti discriminatori, compiuti a danno degli atleti e consistenti nella rigida separazione degli atleti minori Under 15 tra titolari e riserve, per le quali erano previsti allenamenti differenziati. Tale separazione è stata, infatti, giudicata ingiusta e sconveniente perché sottintendeva l’inferiorità di un gruppo rispetto all’altro sulla base di criteri relativi a prestazioni sportive, capacità atletiche, convinzioni personali o orientamento sessuale.
Ebbene l’abuso psicologico e i comportamenti discriminatori sono stati considerati atti compiuti in violazione dell’art. 4 del Codice di Giustizia sportiva FIGC che sancisce l’obbligo per tutti i tesserati, allenatori e dirigenti di comportarsi secondo i principi di lealtà, correttezza e probità.
L’accertamento di tale violazione nel primo e nel secondo grado di giudizio ha comportato, nel caso di specie, il rigetto del ricorso proposto dal presidente e dalla società sportiva e la conferma della sanzione disciplinare.
Con la sentenza n. 92/2025 la Corte Federale FIGC ha anche chiarito che non possono essere derubricate a mera goliardia sportiva le condotte pregiudizievoli dell’integrità fisica, emotiva e morale dei giovani sportivi, essendo un dovere di tutti i tesserati, atleti ed allenatori compresi, contribuire alla creazione di un ambiente sano, sicuro e inclusivo.
L’allenatore dovrebbe, quindi, assumere un ruolo di riferimento e ed essere esempio di disciplina e correttezza sportiva e nel caso analizzato dalla Corte Federale ciò non sembrerebbe essere accaduto.
La Corte Federale FIGC ha, quindi, puntualizzato che “il diritto alla salute e al benessere psicologico ed emotivo dei minori assume un rilievo prevalente rispetto al risultato sportivo e ciò deve in particolare affermarsi con riguardo al Settore giovanile e scolastico, con la conseguenza che la finalità di stimolo al miglioramento delle prestazioni sportive non può mai essere invocata come potenziale alibi per giustificare espressioni lesive della dignità dei minori nell’esercizio dell’attività sportiva”.
Il secondo passaggio della sentenza n. 92/2025 della Corte Federale FIGC da attenzionare riguarda l’accertamento della responsabilità della società sportiva dilettantistica e del presidente della medesima società.
Nello specifico, ha contribuito alla condanna del presidente della società sportiva la circostanza che egli, come parte del direttivo, era già stato informato in passato dell’atteggiamento aggressivo ed offensivo del tecnico a danno degli atleti e che, nonostante ciò, nessun provvedimento era stato adottato per interrompere e prevenire il verificarsi di lesioni alla dignità degli atleti.
Ignorando le segnalazioni ricevute e non dando il giusto peso all’atteggiamento del proprio allenatore, il presidente della società ha violato l’obbligo di “agire per prevenire e contrastare ogni forma di abuso, violenza e discriminazione” così come imposto dall’art. 13 delle Citate Linee Guida Safeguarding FIGC.
Infatti, la Corte Federale FIGC ha anche precisato che il direttivo delle società e delle associazioni sportive ha il dovere di agire e, seppur con discrezionalità, di valutare la migliore misura da adottare per rimuovere la causa dell’abuso e per prevenirne il ripetersi in futuro.
Quindi, il presidente della società avrebbe dovuto valutare il caso di specie e scegliere la migliore strada da intraprendere per (i) attenuare le conseguenze delle violazioni già realizzate e (ii) intervenire per evitare il loro ripetersi in futuro. Non facendo nessuna di queste attività il presidente della società è stato considerato responsabile degli abusi per non aver adottato le adeguate misure a tutela dei tesserati.
Ciò detto, è utile precisare che si applica anche ai dirigenti il dovere di agire con correttezza, lealtà e probità di cui all’art. 4 Codice di Giustizia Sportiva FIGC e che consiste nella violazione di tali principi proprio l’omissione di azioni di prevenzione e contrasto di ogni forma di abuso, violenza e discriminazione.
Quindi, il presidente della società sportiva è stato condannato per violazione dei doveri di lealtà, correttezza e probità, consistente nel mancato intervenuto a tutela degli atleti dopo aver ricevuto le prime segnalazioni da parte di atleti e genitori.
Rispetto alla società sportiva dilettantistica si precisa che anch’essa come soggetto giuridico è obbligata ad agire per prevenire ogni fattispecie di abuso, violenza e discriminazione e che essa risponde direttamente e oggettivamente delle violazioni commesse dai propri tesserati. In particolare, nel caso analizzato dalla Corte Federale FIGC la società è stata ritenuta responsabile:
- a) del fatto omissivo del direttivo e delle condotte offensive realizzate dall’allenatore ai sensi dell’art. 6, commi 1 e 2 del Codice di Giustizia Sportiva FIGC;
- b) delle dichiarazioni e dei comportamenti discriminatori realizzati dall’allenatore ai sensi dell’art. 28, comma 5, del Codice di Giustizia Sportiva FIGC.
Rispetto alla società sportiva è utile sottolineare che essa, nel rispetto dell’art. 16, co. 2, D.lgs. 39/2021 e delle Linee Guida Safeguarding FIGC, ha il dovere di agire in concreto per predisporre tutte le misure idonee a prevenire il verificarsi di abusi, violenze e discriminazioni, ad esempio disciplinando gli accessi all’impianto, le trasferte e organizzando corsi di formazione rivolti agli allenatori in materia safeguarding.
In effetti, per attuare i protocolli posti a tutela dei tesserati gli enti sportivi dovrebbero organizzare apposite sessioni formative rivolte ai componenti del direttivo, agli allenatori e a tutti i collaboratori che partecipano all’organizzazione dell’attività sportiva.
Solo in tale modo sarebbe possibile garantire l’applicazione e l’effettività di quanto trascritto nel Modello organizzativo e di controllo dell’attività sportiva e nel Codice di Condotta di cui all’art. 16 del D.lgs. n. 39/2021.
Ebbene, nel caso sottoposto all’attenzione dei giudici sportivi FIGC, è stato accertato che la società sportiva aveva adottato la documentazione safeguarding, ma che quest’ultima non era stata concretamente recepita e attuata; sicché, proprio da tale adempimento, è derivata la realizzazione degli abusi psicologici e dei comportamenti discriminatori realizzati dall’allenatore a danno degli atleti.
In definitiva, la responsabilità oggettiva e diretta della società è derivata dalla mancata attuazione dei principi e delle misure safeguarding.
Irrilevante è stata giudicata l’adozione delle Policy safeguarding perché esse sono rimaste lettera morta.
La sentenza della Corte Federale FIGC permette di riflettere sull’importanza di adottare e, soprattutto, di attuare i protocolli imposti dalle Linee Guida safeguarding delle Federazioni Sportive, dalle Disciplina Associate e dagli Enti di promozione sportiva poiché, solo tramite la prova della loro concreta applicazione, gli enti sportivi potrebbero dimostrare di aver adottato tutte le misure necessarie a prevenire il rischio di abusi, violenze e discriminazioni e, quindi, di non essere responsabili delle violazioni disciplinari realizzate dai loro atleti, dirigenti e allenatori.
Il concreto recepimento della documentazione safeguarding potrebbe così rilevare come scriminante per le società e associazioni sportive dilettantistiche.
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*Avv. Flavia Ciccotelli e Avv. Biagio Giancola - Studio legale Martinelli Giancola Tiberio