Penale

Aggravante del metodo mafioso: scatta anche se vi è precedente giudicato per associazione per delinquere "semplice"

Lo ha precisato la II sezione della Cassazione con la sentenza n. 25155/2021

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di Aldo Natalini

La precedente condanna irrevocabile dell'imputato per associazione per delinquere "semplice" non preclude che, in un successivo giudizio (anche cautelare), a carico del medesimo indagato, per reati di estorsione collegati alla fattispecie associativa, possa essere riconosciuta la circostanza aggravante del metodo mafioso sulla scorta di nuovi elementi sopravvenuti.
Così la sentenza n. 25155/2021 della sezione II penale della Cassazione, depositata lo scorso 1° luglio, con cui i Supremi giudici hanno rigettato il ricorso per saltum di un indagato che era stato attinto da ordinanza di custodia in carcere relativa a due episodi estorsivi ritenuti aggravati – secondo il giudice della cautela – dal metodo mafioso ai sensi dell'articolo 416-bis.1 del Codice penale.

La vicenda di specie
L'indagato lamentava – in sede di legittimità – della mancanza dei presupposti per la sussistenza dell'aggravante contestatagli dell'essersi avvalso delle condizioni previste dall'articolo 416-bis del Cp.
Nel ricorso per cassazione si doleva, tra l'altro, che l'ordinanza impugnata aveva omesso di indicare le ragioni per le quali l'associazione per delinquere facente capo al ricorrente e ad altri coindagati – ritenuta di carattere "semplice" ex articolo 416 del Cp nel relativo processo di merito conclusosi con sentenza irrevocabile e della cui forza di intimidazione il ricorrente si sarebbe avvalso nel commettere le estorsioni ascrittegli nell'ordinanza custodiale – avesse acquisito la qualifica di "stampo mafioso", nonostante le condotte contestate nell'addebito cautelare fossero state commesse nel medesimo arco temporale e contesto di quello in relazione al quale si era formato il giudicato.
In sostanza, secondo la difesa v'era una contradictio in abiecto tra condanna irrevocabile per associazione per delinquere semplice e circostanza aggravante (ad effetto speciale) prevista dall'articolo 416-bis.1 del Cp, ritenuta sussistente dal giudice della cautela nel gravato provvedimento.
Secondo l'indagato il Gip, riconoscendo natura mafiosa alle due estorsioni contestategli, aveva indebitamente operato una ricostruzione postuma degli episodi criminosi, avvenuti sette anni prima, in contrasto con la condanna irrevocabile che in relazione a fatti analoghi aveva condannato lo stesso ricorrente senza che venisse in evidenza alcun metodo mafioso ed anzi ritenendo espressamente che le modalità con cui vennero perpetrati i delitti-fine, stante la loro natura "rudimentale", erano invece prive del crisma dell'associazionismo mafioso. Né al riguardo potevano "soccorrere" le successive dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, in forza delle quali non potevano "riscriversi" le modalità della condotta delle estorsioni in quell'arco temporale e contesto perpetrate.

Il dictum: ne bis in idem e rivalutazione cautelare di fatti storicamente diversi
La Corte regolatrice per dissolvere il fondamento della suggestiva tesi difensiva con la sentenza in esame ha preso le mosse dal principio del ne bis in idem , come ricostruito dalla Corte EDU a far tempo dalla sentenza Zolotukhin contro Russia, con cui operò un profondo revirement della propria precedente giurisprudenza (talora calibrata sull'identità dei fatti, indipendentemente dalla loro qualificazione giuridica e, quindi, desumibile anche da differenti reati; altre volte sull'esistenza di elementi essenziali comuni a differenti reati).
Nell'occasione, i giudici convenzionali fornirono una chiara definizione di cosa debba intendersi per "same offence" ai fini della Convenzione e, in particolare, della garanzia del ne bis in idem sancito dall'articolo 4 del Protocollo n. 7, da intendersi come divieto di perseguimento o di giudizio di una persona per una seconda volta per un reato avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti che siano "sostanzialmente" gli stessi di quelli per i quali è già stato giudicato. Secondo i giudici di Strasburgo, la portata del divieto non deve limitarsi a prendere in considerazione l'identità o la diversità del nomen iuris, ma deve riguardare l'identità o meno della "storicità del fatto", inteso nella sua essenza di condotta, evento e nesso di causalità. Principi, questi, recepiti integralmente dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 200/2016, che – come noto – ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 649 del Cpp, per contrasto con l'articoli 117, comma 1, della Costituzione in relazione all'articolo 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, nella parte in cui, secondo il diritto vivente, esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale.
Ciò chiarito, l'orbita applicativa del principio del ne bis in idem – scandisce oggi la Cassazione – non preclude al giudice (anche della cautela) di prendere in esame lo stesso fatto storico e di (ri)valutarlo liberamente ai fini della prova di un diverso reato (nella specie si procedeva nei confronti del ricorrente per diverse ipotesi estorsive ai danni di differenti persone offese) e, in particolare, dei suoi elementi circostanziali.
Ciò sta a significare che la preclusione derivante dal precedente giudicato sull'associazione per delinquere non qualificata di natura mafiosa non impedisce che i medesimi fatti storici, sui quali si era radicata la pronuncia poi divenuta irrevocabile, valgano a "coprire" la natura di fatti storicamente diversi ed autonomi, ma eventualmente "collegati" rispetto alla fattispecie associativa. Per i singoli fatti appunto autonomi, il contesto storico-fattuale in cui gli stessi si sono iscritti forma oggetto di altrettante autonome res iudicande che ben possono fondarsi – sub specie di qualificazione giuridica di quei fatti – in termini diversi da quelli che hanno formato oggetto della "qualificazione" del reato associativo (articolo 416 del Cp). In altri termini, il sopravvenuto accertamento del metodo mafioso come strumento volto all'agevolazione e realizzazione di singole e differenti fattispecie incriminatrici non soffre pregiudizio alcuno in dipendenza dell'accertamento compiuto in sede di fattispecie associativa "semplice". È allora evidente – scandisce la sentenza in disamina – che ove venga commesso un fatto estorsivo, omicidiario o di altro genere, ciascun episodio "vive di luce propria" ai fini degli elementi che ne devono corroborare non soltanto la relativa esistenza "storica", ma anche lo specifico contesto che può rilevare agli effetti di elementi di natura circostanziale.
E nel caso di specie, il giudizio che fonda la qualificata circostanza – per la Suprema corte – si ammantava di novum in ragione delle successive dichiarazioni di collaboratori di giustizia, già intranei a quella associazione, arricchite dalle dichiarazioni delle vittime delle estorsioni, oltre che da ulteriori elementi di prova via via acquisiti nel corso delle indagini, al cui contenuto il giudice della cautela ha fatto espresso riferimento. Con la conseguenza che, escluso il paventato vizio di violazione di legge, ogni residua censura che attiene al narrato dei dichiaranti ridonda, in ipotesi, in un vizio di motivazione non consentito in sede di legittimità, essendo l'interposta impugnazione avvenuta per saltum.

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