Il CommentoAmministrativo

Algoritmi e appalti: la black box a tutela dell’innovazione

Forme di opacità algoritmica vengono ammesse per tutelare interessi economici e segreti commerciali. Eppure, tale opacità limita la conoscibilità dell’agere pubblico per algoritmi proprio nel momento in cui la digitalizzazione, da processo inevitabile, diviene obbligo giuridico per l’amministrazione pubblica

di Gianluca Fasano*

Il ricorso alle tecnologie digitali non rappresenta un elemento di novità assoluta nel dibattito sull’amministrazione pubblica. Piuttosto, rappresenta l’evoluzione di un’esigenza storicamente radicata, quella della ricerca di efficienza e razionalizzazione dell’azione amministrativa, esigenza che ha attraversato decenni di riforma. Solitamente, il fondamento costituzionale viene rintracciato nel principio del buon andamento (art. 97, comma 2, Cost.), tradizionalmente inteso come criterio oggettivo di efficienza, economicità e razionalità dell’azione amministrativa. In tale prospettiva, l’automazione si presenta come uno strumento funzionale al miglioramento della performance amministrativa, riducendo tempi, soprattutto in procedimenti standardizzati e massivi, costi e margini di errore.

Anche il settore degli appalti pubblici è interessato da questo processo. La normativa vigente – a partire dal Codice dei contratti pubblici (D.lgs. n. 36/2023) e dal Codice dell’amministrazione digitale (D.lgs. n. 82/2005) – delinea con chiarezza tale orizzonte, attribuendo alla digitalizzazione non solo valore strumentale, ma anche contenuto sostanziale di riforma e innovazione istituzionale.

Assunto che l’obiettivo dell’efficienza amministrativa ha rappresentato il filo conduttore di varie fasi di riforma della pubblica amministrazione, la novità di oggi sta nella direzione impressa dal diritto positivo verso l’obbligatorietà della digitalizzazione di tutte le attività e dei procedimenti connessi al ciclo di vita dei contratti pubblici. A sostegno di tale assunto ritroviamo molte disposizioni del Codice dei contratti pubblici, a partire dall’art. 19, rubricato “Principi e diritti digitali”, per il quale: «Le stazioni appaltanti e gli enti concedenti assicurano la digitalizzazione del ciclo di vita dei contratti nel rispetto dei principi e delle disposizioni del codice dell’amministrazione digitale, .., garantiscono l’esercizio dei diritti di cittadinanza digitale e operano secondo i principi di neutralità tecnologica, di trasparenza, nonché di protezione dei dati personali e di sicurezza informatica». Il comma 7 del medesimo articolo non lascia spazio a diverse letture: «Ove possibile e in relazione al tipo di procedura di affidamento, le stazioni appaltanti e gli enti concedenti ricorrono a procedure automatizzate nella valutazione delle offerte ai sensi dell’articolo 30». Eppoi l’art. 30, dedicato all’automazione delle decisionali pubbliche, che richiama i principi di «a) conoscibilità e comprensibilità, ..di processi decisionali automatizzati .. b) non esclusività della decisione algoritmica, … c) non discriminazione algoritmica..».

In questa prospettiva, la digitalizzazione non si riduce a un processo tecnico-amministrativo o di conformità agli standard normativi dettati dal Codice dell’amministrazione digitale, e nemmeno può continuare a rappresentare un’opzione organizzativa rimessa alla discrezionalità delle singole amministrazioni circa le modalità di attuazione, in concreto, del ‘buon andamento’. È, invece, una modalità concreta per la realizzazione dell’efficienza, attraverso un vincolo normativo preciso, che impone il ricorso sistematico a strumenti digitali per garantire tempestività, trasparenza e qualità dell’azione amministrativa.

In tale quadro, il Codice dei contratti (agli artt. 35 e 36) prevede un nuovo regime di accesso agli atti delle procedure di aggiudicazione, fermi restando i regimi ordinari di cui alla L. n. 241 del 1990 e al D.lgs. n. 33 del 2013. La novità più importante è rappresentata dalla previsione che l’accesso agli atti, per i partecipanti alle procedure, è assicurato mediante acquisizione diretta, in modalità digitale, dei dati e delle informazioni nelle piattaforme, senza, dunque, la necessità di presentare istanze o domande. Trattasi di una forma di reingegnerizzazione degli adempimenti amministrativi, con l’obiettivo di sfruttare i vantaggi garantiti dalle piattaforme digitali al fine di accelerare l’ostensione degli atti, velocizzare le tempistiche dei contenziosi e ridurre gli adempimenti per gli operatori economici e le stazioni appaltanti.

Parimenti, l’introduzione di nuovi paradigmi tecnologici nell’agere pubblico, consentita sempre più frequentemente grazie all’implementazione di sistemi proprietari, sollecita in modo profondo le categorie giuridiche tradizionali, accentuando la questione dei rapporti tra accessibilità e diritti di privativa intellettuale.

Sul punto merita attenzione il caso deciso dal Consiglio di Stato (sent. n. 4857 del 4 giugno 2025), in cui il disciplinare di gara prevedeva che i documenti dell’offerta economica e tecnica fossero elaborati in due fasi: la prima, c.d. di conferma di partecipazione, prevedeva che essi fossero marcati mediante generazione dell’impronta digitale (una specie di codice identificativo unico, che cambia anche se si modifica solo una virgola), entro un termine perentorio; la seconda, di trasmissione su piattaforma dei suddetti file dell’offerta, fase in cui il software confrontava le impronte digitali dei file caricati con quelle generate nella prima fase. Un concorrente, escluso per via della non conformità dell’impronta digitale, chiedeva di conoscere le modalità di funzionamento della piattaforma e dei suoi algoritmi di controllo ma la stazione appaltante negava l’accesso alla copia del codice sorgente della piattaforma.

La decisione richiamata offre interessanti spunti per arricchire il dibattito contemporaneo sull’uso degli algoritmi nell’amministrazione pubblica. In prima battuta, essa precisa come non si configuri una vera e propria decisione amministrativa algoritmica, ossia una determinazione assunta in via autonoma da un sistema informatico senza l’intervento diretto del decisore umano. Più correttamente, si è in presenza di un algoritmo destinato esclusivamente a supportare il processo decisionale umano, svolgendo funzioni ausiliarie di tipo tecnico il cui esito è rimesso, in ogni caso, alla valutazione discrezionale degli organi amministrativi competenti. La precisazione pare riflettere una posizione prudente, fortemente ancorata a una concezione tradizionale della funzione pubblica, in cui la responsabilità decisionale è necessariamente umana e non delegabile, nemmeno in parte, a sistemi automatizzati. Eppure trattasi di una posizione che mostra piena consapevolezza della realtà contemporanea, in cui le tecnologie non possano restare confinate nella “cassetta degli attrezzi” di mero ausilio rispetto allo svolgimento dell’attività amministrativa ma possono sostanziare una decisione amministrativa (algoritmica).

Questa precisazione è fondamentale perché conferma che il principio di conoscibilità riguarda anche algoritmi di supporto e permette di condurre l’analisi al cuore del problema: il regime di esclusione dell’accesso in presenza di informazioni coperte da esigenze di riservatezza aziendale.

Con la disciplina sull’accesso (art. 35, commi 4 e 5, del d.lgs. 36/2023) «il legislatore ha previsto, a tutela dei diritti di privativa intellettuale relativi alle piattaforme digitali utilizzate nelle procedure di gara .. un divieto di accesso e di ogni forma di divulgazione della stessa, incluso, quindi il suo codice sorgente». Tuttavia il diritto di accesso prevale sul diritto alla riservatezza aziendale «solo quando sia indispensabile e strettamente strumentale alla difesa in giudizio del richiedente». E la nozione di indispensabilità va intesa in senso rigoroso: l’accesso è ammesso solo quando non esistono altri mezzi di prova idonei.

In conclusione, è plausibile ritenere che questo scenario generi tensioni forti tra esigenze di conoscibilità e tutela dell’innovazione, tra spiegabilità dell’azione amministrativa e necessità di proteggere know-how e segreti commerciali.

Non si tratta di una sfida giuridica agevole.

Per un verso, viene considerata lecita una forma di opacità algoritmica, rappresentata dal regime di esclusione dall’ostensione dei documenti laddove ciò sia necessario per salvaguardare interessi economici, vantaggi competitivi o strategie proprietarie. Non v’è dubbio che a causa di fattori come la globalizzazione, l’esternalizzazione e l’uso esteso delle tecnologie digitali, le imprese innovative sono sempre più vulnerabili alla diffusione illecita di segreti commerciali. Un’eventuale diffusione comprometterebbe i vantaggi competitivi derivanti dall’innovazione medesima e, in assenza di una adeguata tutela giuridica, si ridurrebbe l’innovazione e la crescita (del mercato). E non v’è dubbio che l’interesse relativo a segreti commerciali sia qualificabile anch’esso come diritto fondamentale.

Per altro verso, occorre prendere atto che la digitalizzazione assume la natura di obbligo giuridico in capo alle istituzioni, per cui essa diviene condizione necessaria per l’effettivo perseguimento degli obiettivi di legalità amministrativa In tale cornice, il diritto di accesso agli atti acquista una nuova centralità rappresentando quella pretesa (cioè diritto) che gli operatori economici possono azionare come strumento correlato all’obbligo giuridico di digitalizzazione imposto alle amministrazioni.

Dunque, questa forma di opacità algoritmica proprio perché non è di natura epistemologica, bensì pragmatica e deliberatamente assunta, va correttamente bilanciata sul piano normativo e interpretativo, affinché il sacrificio imposto alla conoscibilità dell’agere pubblico per algoritmi trovi giustificazione e non venga percepito come una conseguenza ineluttabile dell’obbligatorietà della digitalizzazione.

________

*Gianluca Fasano, Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR – ISTC)