Penale

Deridere chi non vede bene su Facebook è diffamazione

Linea dura della Cassazione sul "body shaming" via social. Contano anche le "emoticon" che accompagnano il post derisorio

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di Marina Crisafi

Body shaming sui social? È diffamazione. E a contare non sono solo le parole ma anche le emoticon che accompagnano il post condiviso su Facebook. È quanto emerge dalla sentenza con cui la quinta sezione penale della Cassazione (n. 2251/2023) ha confermato la condanna per il reato di cui all'articolo 595, terzo comma, c.p., nei confronti di un uomo che aveva pubblicato un post derisorio su Facebook.

La vicenda
Nella vicenda, la Corte d'Appello di Milano, in riforma della decisione di prime cure che aveva condannato l'imputato per il reato di cui all'articolo 595, terzo comma, c.p. alla pena di 800 euro di multa e al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile, riqualificava il fatto ai sensi dell'articolo 594 c.p., assolvendo l'imputato perché l'ingiuria non costituisce più reato.
Secondo il capo d'imputazione, l'uomo aveva offeso la reputazione di un altro soggetto perché, comunicando attraverso Facebook e pubblicando opinioni in un post pubblico dedicato ai problemi di viabilità del comune di Luino, faceva espresso riferimento a deficit visivi della parte civile, aggiungendo anche "emoticon" simboleggianti risate, dileggiandola.

Il ricorso
La parte civile, dal canto suo, adiva la Cassazione lamentando erronea applicazione della legge penale, oltre che vizio di motivazione, per la qualificazione del fatto come ingiuria da parte della Corte territoriale.
A parere della difesa, il presupposto da cui il giudice di merito aveva preso le mosse per fondare la propria decisione di riforma, ossia che "un deficit visivo non diminuisce il valore di una persona", era del tutto inidoneo a descrivere la condotta dell'imputato, giacchè condividere quel presupposto significava trascurare «i più precipui contenuti che caratterizzano la reputazione di una persona».
Senza contare, l'ulteriore erroneo presupposto basato sulla possibilità, di cui la parte offesa poteva avvantaggiarsi, di replicare in via immediata alle espressioni offensive pubblicate su una chat. Così argomentando, infatti la Corte, a dire della difesa, aveva trascurato di considerare che i messaggi lesivi della reputazione della p.c. avevano intanto raggiunto non soltanto quest'ultima, bensì una moltitudine di persone, a nulla rilevando, dunque, che la parte offesa avesse avuto la possibilità d'interloquire con l'imputato in quel contesto comunicativo.

Incongruenza della motivazione
Per piazza Cavour, il ricorso è fondato.
Intanto, la prima parte della succinta motivazione della sentenza d'appello, secondo i giudici del Palazzaccio, non è di "immediata comprensione". Per cui, coglie nel segno la parte civile nel rilevare l'incongruenza motivazionale nel punto in cui la Corte afferma, dapprima, che "l'imputato ha volto gravi offese alla parte civile, denigrandola per il deficit visivo", per poi ritenere, che non vi fosse stato pregiudizio per la sua reputazione posto che «un deficit visivo non diminuisce il valore di una persona» e avendo l'imputato, con tali offese, messo soltanto "in cattiva luce se stesso". Non è dato comprendere, infatti, se il giudice d'appello abbia semplicemente espresso "una affermazione di principio, condivisibile, ma priva di rilievo per il thema decidendum – ovvero - se, con quella frase, abbia inteso escludere la configurabilità della diffamazione, intendendo forse alludere al fatto che il dileggio di una persona ipovedente non vale anche a scalfirne il valore e, quindi, a lederne la reputazione".

Linea dura sul "body shaming"
Ad ogni modo, per gli Ermellini, "la condotta di chi metta alla berlina una persona per talune caratteristiche fisiche, comunicando con più persone, può certo considerarsi un'aggressione alla reputazione di una persona". E, del resto, "che la reputazione individuale (da non confondersi, naturalmente, con la mera considerazione che ciascuno ha di sé o con il semplice amor proprio, posto che il bene giuridico tutelato dalla norma di cui all'articolo 595 cod. pen. è eminentemente relazionale, tutelando il senso della dignità personale in relazione al gruppo sociale) sia un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona è stato ricordato – anche - dalla Corte costituzionale" (cfr. Corte Cost. n. 150/2021).

Differenza tra ingiuria e diffamazione
Anche sul punto della riqualificazione della condotta come ingiuria, il Palazzaccio disattende la valutazione della corte d'appello, ricordando che "l'elemento distintivo tra ingiuria e diffamazione è costituito dal fatto che nell'ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all'offeso, mentre nella diffamazione l'offeso resta estraneo alla comunicazione offensiva intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l'offensore". E laddove il limite tra ingiuria e diffamazione si fa più opaco, occorre capire, scrivono dalla S.C., se e quando l'offeso sia stato concretamente in condizioni di replicare. Se è vero che nel caso di specie la parte civile ha potuto replicare alle offese via chat, è anche vero che tale possibilità si è data in un momento successivo alla pubblicazione delle offese su Facebook.
La Cassazione, proprio sul discrimine tra diffamazione e ingiuria in caso di offese espresse per il tramite di piattaforme telematiche, ha chiarito che "soltanto il requisito della contestualità tra comunicazione dell'offesa e recepimento della stessa da parte dell'offeso vale a configurare l'ipotesi dell'ingiuria". In difetto, invece, "del requisito della contestualità, l'offeso resta estraneo alla comunicazione intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l'offensore" (cfr., tra le altre, Cass. n. 10905/2020). In tal caso, quindi, si profila l'ipotesi della diffamazione, la quale, "avente natura di reato di evento, si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l'espressione ingiuriosa, a condizione che essi siano, in quel momento e in quel luogo (virtuale o non), in grado di difendersi".

La decisione
Da qui l'accoglimento del ricorso e l'annullamento limitatamente agli effetti civili della sentenza impugnata, con inevitabile rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.

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