Diffamazione del militare, alla Consulta la sola pena detentiva
Per la Cassazione, ordinanza n. 34344 depositata oggi, l’assenza dell’alternativa della pena pecuniaria per i casi più lievi viola gli artt. 21, 52 e 117 della Costituzione in relazione all’art. 10 della Cedu
Va alla Corte costituzionale l’obbligo di disporre la pena detentiva per la diffamazione commessa dal militare. La Corte di cassazione, ordinanza n. 34344 depositata oggi, ha infatti ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 227, commi primo e secondo, cod. pen. mil. pace, che sanziona la diffamazione militare, in riferimento agli articoli 21, 52 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 10 della Cedu, nella parte in cui in cui non prevede, in alternativa rispetto alla pena detentiva, la pena pecuniaria.
Il caso era quello di un maresciallo di seconda classe, sindacalista, condannato a otto mesi di reclusione per diffamazione del 16° Stormo dell’Aeronautica Militare e dei Carabinieri della Stazione di Martina Franca, oltre che del ministero della Difesa. La contestazione riguardava la pubblicazione sul suo profili Facebook e sul sito Infodifesa, nel giugno 2020, di uno scritto in cui denunciava il suicidio di un fuciliere dell’Aeronautica Militare Italiana, parlando di “una strage silenziosa che miete vittime ogni giorno”. Accertato che la morte del militare era avvenuta nel sonno a causa delle esalazioni di monossido di carbonio provenienti da due bracieri lasciati accesi nell’abitazione, la Corte di merito ha ritenuto integrato il reato di diffamazione ai danni dell’Aeronautica, dei Carabinieri e del Ministero.
Proposto ricorso, l’imputato, tra l’altro ha sostenuto “l’insussistenza del delitto” o almeno “la scriminante del diritto di critica”, chiedendo nel contempo di sollevarsi questione di legittimità costituzionale dell’art. 227 cod. pen. mil. pace, nella parte in cui, a differenza di quanto previsto per la diffamazione ordinaria, punisce il reato con la sola pena detentiva e non anche, alternativamente, con quella pecuniaria, in contrasto con gli articoli 3 e 52 Cost.
La Prima sezione ricorda che il legislatore, a seguito della sentenza n. 120 del 2018 della Corte costituzionale, ha dato compiuta regolamentazione all’attività sindacale prima nella legge 46/2022 e poi nel Dlgs 192/2023, dove si riconosce esplicitamente che i militari che ricoprono cariche elettive «possono manifestare il loro pensiero in ogni sede e su tutte le questioni non soggette a classifica di segretezza che riguardano la vita militare, nei limiti previsti» dalla norma stessa.
Non si tratta, spiega la Corte, della richiesta di una “generalizzata parificazione della fattispecie comune della diffamazione e di quella militare”; piuttosto, si osserva che, “pur nella maggiore complessità offensiva delle condotte diffamatorie rilevanti per l’ordinamento militare – ciò che ne giustifica il trattamento speciale – […] viene sempre in gioco un’esigenza di bilanciamento con il valore della libera manifestazione del pensiero che esiste anche nell’ambito dell’ordinamento militare”. Significativamente, sul punto, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che l’art. 10 della Cedu «non si ferma davanti al cancello delle caserme».
Inoltre, prosegue la decisione, «sebbene, in linea generale, l’ordinamento penale militare di pace non conosca pene pecuniarie (art. 22 cod. pen. mil. pace), esso non è più ritenuto incompatibile con queste ultime». E la disciplina generale della diffamazione «contiene previsioni che possono offrire ‘per linee interne’ la grandezza predefinita che consenta alla Corte costituzionale di assicurare la coerenza e la proporzionalità delle sanzioni e rimediare all’irragionevole commisurazione della pena, laddove non prevede sanzioni pecuniarie, senza sovrapporsi al ruolo del legislatore».
«L’intervento immediato – ferma la discrezionalità di successive determinazioni del legislatore - non altererebbe – conclude la Corte - le specifiche pene detentive previste dal codice penale militare, ma consentirebbe al giudice di disporre di uno strumento costituito dalla pena pecuniaria della multa (da € 50 - art. 24, comma primo, cod. pen. - a, rispettivamente, € 1.032 e € 2.065) in grado di sanzionare i casi nei quali la condotta illecita non raggiunga la soglia di gravità che giustifica, alla luce delle superiori considerazioni, l’applicazione della pena detentiva».