Detenzione abusiva anche se l’arma è guasta ma può essere riparata
La Cassazione, sentenza n. 1020 depositata oggi, afferma che il reato scatta qualora l’arma possa essere ripristinata mediante pezzi di ricambio o altri accorgimenti
Pur essendo guasta o priva di pezzi, anche essenziali, l’arma non perde “tale qualità” qualora possa comunque essere ripristinata nella sua funzione originaria, utilizzando pezzi di ricambio o adottando altri accorgimenti. È uno dei passaggi della sentenza n. 1020 depositata oggi con cui la Corte di cassazione ha respinto il ricorso di un uomo condannato alla pena di due anni e sei mesi di reclusione per la detenzione di un’arma comune da sparo ottenuta mediante la modifica delle canne e del caricatore di uno strumento di segnalazione acustica, e di quattro cartucce.
Sono state così confermate le sentenze di primo e secondo grado emesse dopo il ritrovamento, nel corso di una perquisizione, dell’arma in una intercapedine dell’abitazione. Le due decisioni convenivano sul fatto che l’arma, pur se in cattivo stato di conservazione, fosse funzionante, come del resto accertato a mezzo di perizia durante il giudizio di primo grado.
Il ricorrente si era difeso sostenendo, tra l’altro, l’assenza dell’elemento soggettivo come sarebbe comprovato dalla prova di sparo a suo tempo fatta in giardino e non andata a buon fine, come testimoniato da un terzo.
La Prima sezione penale ricorda che la rilevanza penale nel possesso di un’arma, può essere esclusa solo se la stessa “sia inidonea in modo assoluto all’impiego cui è destinata, nel senso che, a causa di imperfezioni o anomalie che non possono essere agevolmente rimosse, essa non possa in concreto essere utilizzata”. Non può, dunque - prosegue la decisione -, avere alcun rilievo l’attuale inefficienza dell’arma. E poiché nel caso di specie, l’arma, per quanto in cattivo stato di conservazione, non era “del tutto inefficiente per cause non rimovibili, e quindi inidonea in modo assoluto all’impiego, correttamente si è concluso per la sussistenza del reato”.
Del resto, a seguito della fallimentare prova di sparo, l’imputato “non maturò certo la convinzione del fatto che l’arma fosse un rottame, ma, più semplicemente, si convinse della sua attuale inefficienza: nessun senso, altrimenti, avrebbe avuto l’occultamento della pistola e del relativo munizionamento”. L’aver tenuto presso di sé l’arma rivela, dunque, “inequivocabilmente l’intenzione di detenerla e di restituirle efficienza, ad esempio attraverso le operazioni artigianali ben conosciute dal ricorrente e descritte al giudice della convalida”.
In tema di detenzione illegale di un’arma, aggiunge la Cassazione, l’errore di fatto sull’inefficienza della stessa ha efficacia scriminante (ai sensi dell’art. 47 cod. pen.) solo quando attiene alla completezza e interessa l’arma stessa in ogni sua parte essenziale, non quando riguarda un difetto di funzionamento.
Sul mancato riconoscimento delle attenuanti, invece, la Cassazione ricorda che esse non costituiscono un diritto conseguente all’assenza di elementi negativi connotanti la personalità del soggetto, ma richiedono che “venga provata la sussistenza di elementi di segno positivi”. Nel caso concreto, hanno giocato contro sia la gravità del reato, il possesso di un’arma clandestina e del relativo munizionamento, che i due precedenti penali la cui risalenza è bilanciata dalla obiettiva gravità dei delitti (spaccio e usura), tali da “lumeggiare la negativa personalità” dell’imputato. Non conta invece, conclude la Corte, la circostanza che il reo “sia dedito a stabile e lecita attività lavorativa, che, ai fini che qui rilevano, appare del tutto neutra”.