Penale

Diffamazione, paragonare a Cetto Laqualunque il sindaco non è in sé “offesa” ma lecita satira

Il diritto di critica consente l’apprezzamento negativo sull’operato e i comportamenti tenuti dal pubblico amministratore sempre che non sia gratuito ed è anche espresso dalla satira poltica in base al comune sentire

di Pietro Alessio Palumbo

La Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 37104/2025 - compie un passo decisivo nella definizione dei rapporti tra reputazione del pubblico amministratore e diritto di critica politica esercitato in forma satirica.

Il principio di diritto affermato è puntuale: l’uso di un epiteto satirico riferito a un personaggio caricaturale universalmente noto - nella vicenda il noto sig. Cetto La Qualunque - non integra diffamazione quando l’espressione, pur pungente, resta ancorata a una critica dell’operato pubblico e non si traduce in un attacco gratuito alla persona.

La Suprema Corte valorizza la natura stessa della satira, che opera attraverso deformazioni, paradossi e iperboli, riconoscendo che la libertà di espressione raggiunge la massima estensione quando si discute di comportamenti di figure politiche, chiamate a tollerare un grado più elevato di critica.

La novità

L’innovazione sta nel metodo: la Cassazione individua il significato socialmente consolidato del personaggio evocato e lo utilizza come parametro per valutare l’idoneità offensiva dell’epiteto, riconoscendo che l’immaginario collettivo è una ‘fonte di diritto vivente’ indispensabile per misurare la reputazione in un contesto storico preciso.

Il fatto

La vicenda prende forma durante il clima convulso dell’emergenza pandemica, quando timori, regole, anticipazioni e interpretazioni si intrecciavano in un mosaico incerto. In un piccolo Comune, un controllo domiciliare viene effettuato in assenza di una base normativa consolidata, generando sorpresa, irritazione e la sensazione di un potere esercitato con eccesso di zelo. Da quell’episodio nasce una mail inviata dall’interessato al Comune, nella quale il destinatario istituzionale viene appellato con il nome di un personaggio satirico famoso per rappresentare il politico improvvisato, ruvido, scomposto, spesso più attento all’impatto scenico che alla proporzione dei provvedimenti. È un riferimento che ha lo scopo di denunciare una condotta percepita come immotivata, più che di colpire la persona nella sua dignità privata. La reazione giudiziaria, tuttavia, prende una strada severa nelle prime fasi, ritenendo quell’espressione come un attacco alla reputazione. Ed è proprio a questo punto che la Suprema Corte interviene, guardando non solo alla frase, ma al contesto, al momento storico e al contenuto concreto dell’azione criticata, restituendo coerenza alla logica della satira come strumento di partecipazione e dissenso.

Rilevanza del contesto sociale

Il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione è assai significativo perché sposta il baricentro dell’analisi dalla parola isolata al suo ecosistema sociale. La Corte osserva che un personaggio satirico ampiamente noto porta con sé una gamma di significati complessa, stratificata, fluida nel tempo. È una figura che vive nella cultura collettiva e che, proprio per questo, non può essere interpretata in modo rigido. L’epiteto che richiama tale figura non è automaticamente un’offesa: diventa tale solo se, in quel determinato contesto, trasmette un giudizio degradante sulla persona e non sulle sue scelte pubbliche.

La notorietà condivisa...

Da qui l’innovazione: la Corte di Cassazione utilizza la “notorietà condivisa” come criterio per stabilire se l’evocazione del personaggio sia comprensibile come satira e non come insulto. La critica politica, ricorda la Corte, ammette toni aspri e perfino sferzanti, purché non gratuiti. E nel caso esaminato, l’espressione contestata era direttamente collegata al comportamento del pubblico amministratore, giudicato sproporzionato rispetto alla situazione. Il giudice di legittimità riconosce così che la satira politica non richiede aderenza al vero, perché la sua funzione non è informativa ma corrosiva: mette in scena un’esagerazione che serve a denunciare un disequilibrio di potere. La novità della sentenza sta nel riconoscere che questo linguaggio, tipico della satira, amplifica la libertà di espressione invece di comprimerla, soprattutto quando la critica riguarda l’esercizio di funzioni che incidono sulla vita dei cittadini. La Suprema Corte, annullando la condanna, riafferma che la reputazione del politico è tutelata, ma non può essere elevata a scudo per neutralizzare il dissenso pungente quando questo rimane ancorato ai fatti e non precipita nel disprezzo personale.

...un nuovo criterio di merito

La decisione introduce inoltre un criterio di valutazione che potrebbe incidere profondamente sui futuri giudizi di diffamazione a contenuto politico: l’obbligo per il giudice di confrontarsi con il patrimonio culturale condiviso dalla collettività. Non basta più esaminare la parola incriminata; occorre ricostruire l’universo simbolico che l’accompagna, comprendendo come quel riferimento venga percepito nel linguaggio comune. In questo modo la Corte di Cassazione riconosce che la comunicazione politica non si muove su un piano formale, ma dentro un sistema di immagini, codici e ironie che appartengono alla vita sociale. È qui che la satira diventa una lente necessaria, capace di svelare e deformare, senza per questo trasformarsi in offesa.

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