Il CommentoSocietà

Gli “adeguati assetti” di cui all’articolo 2086 c.c. e il contratto

La valenza del dovere di istituire “<i>adeguati assetti</i>” anche come fatto di rilevanza esterna all’impresa, come regola e preciso dovere dell’impresa, che si pone sul mercato

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di Alessandro Palma*

Una delle più importanti sfide che l’interprete di un diritto poietico può raccogliere, nell’indagare il significato più pregnante del dovere di istituire adeguati assetti ” posto direttamente in capo all’imprenditore dall’interpolato art. 2086 c.c. , è quella di verificare se e in che misura vi sia un’incidenza di questa novità normativa sul contratto e, segnatamente, sulle obbligazioni contrattuali assunte dall’imprenditore.

Ad avviso di chi scrive, già la legge delega che ha partorito il CCII (“Riforma Rordorf”, c.d. “Riforma Rordorf”) ci ha messo sull’avviso che il dovere di istituire adeguati assetti ” stava traslando dal piano del diritto commerciale – abituato a porre doveri in capo agli organi sociali dell’impresa collettiva per orientarne l’attività, sanzionando la loro violazione con gli strumenti classici delle azioni di responsabilità – al piano del diritto civile, che conosce strumenti per reagire direttamente alle violazioni dei doveri e financo per anticipare le stesse violazioni.

Se il Legislatore del CCII avesse voluto intervenire rimanendo sul piano del diritto societario – come aveva fatto con la Riforma delle società di capitali del 2003, quando ha posto la regola, in materia di S.p.A., di cui all’art. 2381 c.c. –, avrebbe ripetuto questa prescrizione nelle norme riguardanti gli altri tipi di società – per rendere la regola transtipica – e avrebbe poi, nella prospettiva di imporre la gestione preventiva della crisi agli organi di tutte le società, integrato la stessa regola normativa aggiungendo che l’istituzione degli “ adeguati assetti ” nelle società per azioni è ora anche funzionale, per l’appunto, alla rilevazione tempestiva della crisi.

Così non è stato, dal momento che già la menzionata legge delega ha stabilito che il Governo prevedesse ( all’art. 14, lettera b), L. 155/2017 ) “il dovere – si badi bene, anzitutto – dell’imprenditore e – poi – degli organi sociali di istituire adeguati assetti organizzativi per la rilevazione tempestiva della crisi e della continuità aziendale”; di conseguenza, il Legislatore delegato del CCII ha scolpito nella pietra, in una delle primissime norme riguardanti l’impresa in generale (per l’appunto, il secondo comma dell’art. 2086 c.c.) [1], il dovere di istituire “adeguati assetti” in capo anzitutto all’imprenditore (che operi in forma societaria o in forma collettiva).

A questo punto e con buona pace della diversa sensibilità degli interpreti, si impone l’indagine circa la valenza del dovere di istituire “ adeguati assetti ” anche come fatto di rilevanza esterna all’impresa, come regola e preciso dovere dell’impresa, che si pone sul mercato.

Ciò non toglie che il dovere di istituire “adeguati assetti” continui a essere fatto giuridico di rilevanza interna per l’impresa: lo era già dal 2003, con l’istituzione degli adeguati assettiprescritta dall’art. 2381 c.c., in materia di società per azioni, come primo principio di corretta amministrazione cui si devono attenere gli organi sociali nella gestione dell’impresa (che si tratti di principio di corretta amministrazione, lo si ricava dall’art. 2403 c.c.; norma che chiama il Collegio sindacale a vigilare sul rispetto dei princìpi di corretta amministrazione e puntualizza che, tra questi, vi è l’istituzione degli “adeguati assetti”).
Si vuol dire, a scanso di equivoci, che il dovere di istituire “adeguati assetti” continua senz’altro a essere anche metro, misura, di responsabilità degli organi sociali con riferimento alla gestione dell’attività di impresa e, così, a essere regola di governance interna. [2]

Ora, di questi due specifici angoli visuali di indagine del dovere di istituire “adeguati assetti”, quello riguardante il dovere in discorso come regola di governance interna è pluriesplorato. È invece poco indagato e, men che meno, approfondito, il secondo angolo visuale d’indagine e cioè, quello relativo alle possibili conseguenze giuridiche per l’imprenditore, della mancata ottemperanza di questo dovere, nei confronti dei terzi e, in particolare, delle controparti contrattuali.

Eppure, c’è anche e soprattutto una ragione pratica che impone un approfondimento da questo specifico angolo visuale: stanno scorrendo “fiumi di inchiostro” sui nuovi oneri, doveri e obblighi che il CCII ascrive, in capo ai creditori dell’impresa in crisi, con i princìpi di cui al suo art. 4 e, in particolare, con le norme specifiche dettate in tema di composizione negoziata della crisi. Se è vero che il creditore non può più disinteressarsi delle sorti del suo debitore, è altrettanto indiscutibile che lo stesso creditore deve poter fare affidamento su una organizzazione dell’imprenditore-debitore che riduca il rischio della crisi dello stesso debitore e, quindi della delusione della aspettative del creditore di vedere soddisfatte le sue ragioni. In definitiva, il creditore deve poter fare affidamento su una organizzazione assunta a fondamento di nuovi doveri dell’imprenditore.

In questo scenario, risuonano chiare le parole di un grande Maestro che quasi un ventennio fa ammoniva sul fatto che l’organizzazione dell’impresa è entrata nel contratto. [3]
Notoriamente, il contratto è lo strumento di mediazione attraverso il quale l’impresa esercita la sua attività: attraverso il contratto si procura e combina fattori produttivi; attraverso il contratto colloca sul mercato i suoi prodotti o servizi. Nella prospettiva tradizionale, l’imprenditore assumeva obblighi attraverso il contratto e si impegnava a procurare un risultato. Punto!
Nessuna rilevanza rivestivano le fasi del percorso interno attraverso le quali l’impresa giunge a quel risultato: il rischio che l’imprenditore non arrivasse al risultato promesso era considerato tutto suo, cosicché il civilista si disinteressava delle cause che possono portare all’inadempimento, almeno fino a quando questo non si configurasse. Solo che, da ora in poi, lo studioso del diritto civile – a parere di chi scrive – deve “inforcare nuove lenti” e così, anzitutto, constatare che l’organizzazione dell’impresa è entrata definitivamente nel contratto, per poi metterne in luce le implicazioni in termini di effetti giuridici.

Infatti, l’impegno negoziale dell’imprenditore implica oramai, ha come presupposto, una serie di prestazioni preliminari, strumentali e, in senso lato, “ organizzative ” volte all’istituzione degli “ adeguati assetti ” funzionali alla prevenzione della crisi d’impresa e alla tutela degli interessi coinvolti, in qualche modo, dalla stessa attività di impresa. Queste prestazioni c.d. “organizzative” possono essere considerate, e sono considerabili, oramai, dalla controparte contrattuale dell’imprenditore come presupposti esistenti al momento della negoziazione con lo stesso imprenditore e per tutto il tempo di efficacia del contratto. [4]

Quando si contratta e ci si relaziona con un imprenditore, si può e si deve fare affidamento, d’ora in poi, sul fatto che lo stesso imprenditore sia organizzato e strutturato per stare in maniera affidabile sul mercato: l’organizzazione dell’impresa non è più affare esclusivo dell’imprenditore.

E per “ affidabilità dell’imprenditore ” si deve intendere qualcosa di preciso dopo l’entrata in vigore delle norme del CCII: l’imprenditore
1) deve preservare la propria continuità aziendale ed essere in grado, in ogni momento, di realizzare il risultato promesso con la conclusione del contratto, anche superando situazioni di crisi (non può che essere questo il significato più pregnante del nuovo articolo 2086 c.c., posto a tutela non tanto e non solo dello stesso imprenditore, ma, soprattutto, della intera collettività che alla fine è chiamata a pagare il conto del suo default) e 2) deve non ledere sfere giuridiche altrui, anche non coincidenti con quelle delle parti del rapporto contrattuale (nel mio precedente contributo su questa rivista, citato alla nota a pie’ di pagina 1, ho argomentato: i) circa l’attuazione del dettato di cui all’articolo 41 Costituzione attraverso l’istituzione del dovere degli “adeguati assetti” posto in capo direttamente all’imprenditore; ii) nonché sulla conseguente funzionalizzazione degli stessi “adeguati assetti”, anche e soprattutto a tutela di interessi esterni all’impresa).

Si può, quindi, ritenere che l’adeguatezza degli assetti di cui all’art. 2086 c.c. è diventata regola disciplinante sin dall’inizio il rapporto tra le imprese e/o tra l’impresa e i terzi che entrano in contatto con essa. Così come nella negoziazione ai fini della conclusione di qualsiasi contratto c’è la clausola generale di buona fede ” a governare la trattativa e, in particolare, c’è il dovere delle parti di “comportarsi secondo buona fede” (art. 1337 c.c.), allo stesso modo, nella negoziazione e nel rapporto tra le imprese, d’ora in poi, c’è anche la clausola generale sugli “ adeguati assetti ” che addirittura precede la formazione del contratto[5]; contratto la cui conclusione presuppone, per l’appunto, il già avvenuto e continuato adempimento del dovere dell’imprenditore di “istituire un assetto … adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa” (art. 2086, comma secondo, c.c.). Questo non significa che, per tutti i rapporti negoziali, la rilevanza dell’organizzazione dell’impresa del debitore debba essere sempre la stessa: sarà solo l’esame della singola fattispecie e della funzione economico-individuale del singolo contratto a consentire di mettere a fuoco tutte le implicazioni. E questo esame sarà il compito futuro degli avvocati : il loro lavoro “ premium ”, prima e dopo la conclusione del contratto.

Al termine di questo (necessariamente) sintetico discorso, si potrebbe ritenere integrata la norma dell’art. 1337 del Codice civile del 1942, che, a ragion veduta, potrebbe essere riletta così: “(l)e parti nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto devono comportarsi secondo buona fede. Se una delle due parti è un imprenditore, l’altra parte può fare affidamento che la sua impresa sia dotata , per tutto il tempo di efficacia del contratto, di adeguati assetti (se imprenditore collettivo) o di misure idonee (se imprenditore individuale) anche per rilevare e affrontare tempestivamente la crisi ”.

Se questa conclusione può essere condivisa, non è peregrino indagarne le implicazioni giuridiche sui rapporti contrattuali in cui è parte (almeno) un imprenditore e ciò soprattutto in chiave di prevenzione della crisi d’impresa. Ciò perché, una volta che la crisi si è manifestata, la responsabilità e la conseguente obbligazione risarcitoria dell’imprenditore – individuale o collettivo che sia – serve a poco in concreto se questa crisi sfocia nella perdita della continuità aziendale e, poi, nell’insolvenza (c’è lo spauracchio della responsabilità degli organi sociali, ma l’insufficienza di questo esclusivo approccio è sotto gli occhi di tutti: vengono instaurate cause con domande per milioni e si concludono transazioni per poche migliaia di euro); per contro, un approccio che indaghi sulla disfunzionalità del rapporto contrattuale – dall’angolo visuale dell’inadeguatezza degli assetti dell’impresa coinvolta nello stesso rapporto – prima dell’inadempimento e, quindi, nella fase fisiologica dei rapporti tra le imprese, potrebbe costituire il primo livello di emersione anticipata della crisi .

È inutile sottolineare l’importanza sistematica di una tale prospettiva: continuare a considerare il tema della crisi d’impresa e della salvaguardia della continuità aziendale come un tema di compromissione più o meno intensa dei diritti dei creditori, alla lunga, non potrà che avere l’unico effetto di minare la fiducia reciproca tra gli operatori del mercato, al punto che nessuno farà più credito a nessun altro. Per contro, un approccio che consideri il rapporto tra imprese e, comunque, il rapporto in cui una impresa intervenga svolgendo la propria prestazione caratteristica, come un rapporto governato sin dall’inizio dalla clausola generale degli “ adeguati assetti ”, avrebbe due conseguenze positive: da un lato, permetterebbe di giustificare la compressione dei diritti dei creditori, pur quando intesi – a mio parere, correttamente – come collettività dei creditori [6]; dall’altro lato, consentirebbe un controllo preventivo, reciproco e diffuso sulla esistenza di adeguati assetti già nella fase fisiologica dei rapporti tra le imprese, contribuendo a segnalare subito, sino ad espellere dal mercato, quelle che non sono adeguatamente organizzate.

Seguendo questa strada, forse inizialmente il contenzioso potrebbe avere un’impennata, ma, alla lunga, potrebbe essere quello dei rapporti contrattuali il terreno sfidante sul quale realizzare la prevenzione della crisi d’impresa non a parole, ma con i fatti.

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*A cura di Alessandro Palma, Founder di Studio Legale Palma, Socio Centro Studi Borgogna

NOTE
[1] “L’imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”.
[2] Era un dovere che la giurisprudenza aveva analogicamente esteso agli organi della società a responsabilità limitata e che oggi, con il CCII, riguarda anche tutte le altre società diverse dalla S.p.A. e persino l’impresa individuale (se si evita di dare troppa importanza alla differente descrizione di cui all’art. 3 dello stesso CCII, che prescrive il dovere dell’imprenditore individuale, anziché di adottare “adeguati assetti”, di adottare “misure idonee” a rilevare tempestivamente la crisi). Questo dovere di istituire “adeguati assetti” è stato funzionalizzato alla rilevazione tempestiva della crisi, introducendo nuovi doveri in capo agli organi sociali.
[3] V. Buonocore, “Adeguatezza, precauzione, gestione, responsabilità: chiose sull’art. 2381, commi terzo e quinto, del Codice civile” in Giur. Comm., 2006, I, pp. 5 e ss..
[4] Si veda, diffusamente, il lavoro del Prof. Avv. Danilo Galletti, in corso di pubblicazione, dal titolo “L’organizzazione dell’impresa e il quomodo della produzione. L’impresa non è più black box?” in Rivista di Diritto dell’Impresa, Edizioni Scientifiche Italiane, 2023.
[5] La clausola degli “adeguati assetti”, così come quella della buona fede, è una clausola certamente generale, ma qualificata e, per così dire, tipizzata: infatti, l’imprenditore che deve istituire gli “adeguati assetti”, per dare contenuto all’ottemperanza di questo dovere, deve approvvigionarsi alle scienze aziendalistiche. Bisogna ancora una volta ricordare il pensiero di Vincenzo Buonocore (op. cit.), il quale, all’indomani della Riforma delle società di capitali e con riferimento al rapporto tra la clausola generale di buona fede e quella degli “adeguati assetti” di cui all’art. 2381 c.c., osservava che, “una cosa è l’imposizione del principio di adeguatezza organizzativa, contabile e amministrativa, e anche patrimoniale e tecnica come canone di buona amministrazione, che rende oggettiva la valutazione della responsabilità da inadeguatezza, altra cosa è affidarsi alla correttezza e buona fede per valutare se l’imprenditore sia stato scorretto o in mala fede e, quindi, giocarsi la partita sul piano probatorio dell’assenza di questi due elementi”.
[6] Come da ultimo sostenuto da Remo Tarolli, Le tendenze evolutive della crisi d’impresa: verso un (nuovo) modello di accordo socialmente orientato, in Giurisprudenza Commerciale, 50.3, Maggio-Giugno 2023.