Civile

Malati di Alzheimer, rette a carico del Ssn per inscindibilità e prevalenza dell’attività sanitaria

Le prestazioni sono “sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria” quindi a totale carico dell’Asl se l’aspetto assistenziale è assorbito dalla necessità di cure annullando qualsiasi pattuizione di pagamento coi familiari

di Valeria Cianciolo

In materia di rette per il ricovero presso strutture residenziali di pazienti affetti da malattie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer, le prestazioni devono essere qualificate come “prestazioni sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria” a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale (Ssn), quando vi è inscindibilità e prevalenza delle prestazioni sanitarie rispetto a quelle socio-assistenziali, con conseguente nullità di ogni accordo che preveda il pagamento delle rette da parte del paziente o dei suoi familiari.

L’attività prestata in favore di soggetto gravemente affetto da morbo di Alzheimer ricoverato in istituto di cura è qualificabile come attività sanitaria, quindi di competenza del Servizio Sanitario Nazionale, ai sensi dell’articolo 30 della legge 730/1983, non essendo possibile determinare le quote di natura sanitaria e detrarle da quelle di natura assistenziale, stante la loro stretta correlazione, con netta prevalenza delle prime sulle seconde, in quanto comunque dirette, anche ex articolo 1 del Dpcm 8 agosto 1985, alla tutela della salute del cittadino; ne consegue la non recuperabilità, mediante azione di rivalsa a carico dei parenti del paziente, delle prestazioni di natura assistenziale erogate dal Comune.

La decisione

La sentenza del Tribunale di Pordenone (sentenza 25 settembre 2025 n. 503) affronta una questione centrale e di forte attualità: l’individuazione del soggetto tenuto a sostenere le spese relative alle prestazioni socio-assistenziali erogate ai pazienti affetti da malattia di Alzheimer.

Nel caso in esame, il Tribunale ha posto particolare attenzione alla natura delle prestazioni fornite, sottolineando come siano queste destinate a soggetti affetti da patologie neurodegenerative gravi e richiedendo un elevato livello di integrazione sanitaria, debbano essere considerate prestazioni sociosanitarie a prevalente contenuto sanitario. Tale qualificazione comporta che l’onere economico delle relative rette sia posto interamente a carico del Servizio Sanitario Nazionale, in virtù del primato del diritto alla salute del cittadino.

La tutela del diritto alla salute, sancita dalla Costituzione e dalla normativa di settore, assume un valore preminente rispetto a eventuali accordi stipulati in sede di ricovero. Di conseguenza, anche in presenza di atti unilaterali con cui il paziente o i suoi familiari si obbligano al pagamento della retta, tali impegni non producono alcun effetto giuridico, in quanto contrastano con il principio della totale gratuità delle prestazioni sanitarie inscindibili e prevalenti.

La sentenza rappresenta quindi, un importante punto di riferimento in materia, riaffermando, in conformità a quanto già espresso dalla Cassazione negli ultimi anni, che la responsabilità economica per le prestazioni sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria in favore dei malati di Alzheimer, non può essere posta a carico dei pazienti o dei loro familiari, ma resta in capo al Servizio sanitario pubblico.

I fatti

Il Comune avanzava una richiesta di pagamento di 52.421,52 euro, corrispondente alle rette di ricovero rimaste insolute per il periodo di permanenza di una paziente affetta da morbo di Alzheimer, presso una struttura residenziale specializzata, nei confronti della figlia, la quale ricopriva sia il ruolo di amministratrice di sostegno sia quello di unica erede della donna.

Secondo la posizione dell’ente comunale, la figlia si sarebbe obbligata in solido al pagamento delle rette sia in qualità di amministratrice di sostegno della madre sia, successivamente, come unica erede. Tale richiesta si fondava sull’assunto che la figlia avesse assunto un impegno diretto nei confronti della struttura e del Comune, rendendosi così responsabile dell’adempimento degli obblighi economici relativi al ricovero della madre.

La donna interrompeva i pagamenti, sostenendo che, trattandosi di prestazioni sanitarie prevalenti, l’intero costo doveva essere a carico del Sistema Sanitario Nazionale, come stabilito dalla giurisprudenza della Cassazione.

Il Comune ribadiva che la normativa regionale prevedeva la compartecipazione dell’utente alle spese e che le prestazioni non erano qualificabili come “socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria”.

La figlia chiedeva la restituzione di 9.355,50 euro già pagati, sostenendo la nullità di ogni accordo che prevedesse il pagamento da parte del paziente o dei familiari.

Il Tribunale ha disposto una consulenza tecnica per accertare la natura delle prestazioni erogate alla paziente.

Dalla Ctu è emerso che la de cuius era affetta da Alzheimer in fase avanzata, oltre ad avere altre gravi patologie, necessitando di assistenza sanitaria continua e di un piano terapeutico personalizzato. Le prestazioni assistenziali, pertanto, risultavano inscindibili da quelle sanitarie, con netta prevalenza delle seconde.

Il Tribunale ha rigettato la domanda principale del Comune, ha accolto la domanda subordinata del Comune contro l’Azienda sanitaria, condannandola a pagare le somme dovute ed ha accolto la domanda riconvenzionale della figlia, condannando il Comune a restituire le somme già pagate.

Le questioni di diritto

La Corte di cassazione ha ormai ripetutamente affermato che le prestazioni socio-sanitarie a elevata integrazione sanitaria sono presenti ogni qualvolta le prestazioni di natura sanitaria non possano essere eseguite “se non congiuntamente” alla attività di natura socio-assistenziale, di talché non sia possibile discernere il rispettivo onere economico, con la conseguenza che diviene prevalente la natura sanitaria del servizio “in quanto le altre prestazioni - di natura diversa- debbono ritenersi avvinte alle prime da un nesso di strumentalità necessaria essendo dirette a consentire la cura della salute dell’assistito, e dunque la complessiva prestazione deve essere erogata a titolo gratuito”.

Secondo la Suprema Corte la prestazione socio-assistenziale diviene “inscindibilmente connessa” a quella sanitaria in presenza di un trattamento terapeutico personalizzato non connotato da occasionalità.

Una parte della giurisprudenza di merito, partendo da tali premesse, aveva tuttavia, reputato che dovesse escludersi la riconducibilità dei malati di Alzheimer tout court nella categoria dei soggetti bisognosi di una prestazione di assistenza inscindibilmente connessa a quella sanitaria.

I recenti arresti della Suprema Corte hanno tuttavia messo in luce che “l’attività prestata in favore di soggetto gravemente affetto da morbo di Alzheimer ricoverato in istituto di cura è qualificabile come attività sanitaria, quindi di competenza del Servizio Sanitario Nazionale, ai sensi della L. n. 730 del 1983, art. 309, non essendo possibile determinare le quote di natura sanitaria e detrarle da quelle di natura assistenziale, stante la loro stretta correlazione, con netta prevalenza delle prime sulle seconde, in quanto comunque dirette, anche ex D.P.C.M. 8 agosto 1985, art. 1, alla tutela della salute del cittadino” (Cassazione 22 febbraio 2024 n. 4752 e 11 dicembre 2023 n. 34590). È dunque sufficiente, secondo la Suprema Corte che a una persona affetta da Alzheimer siano erogate prestazioni sanitarie collegate, per rendere la prestazione assistenziale inscindibilmente connessa a quella sanitaria (Cassazione, sezione III, 24 gennaio 2023 n. 2038).

Tali principi valgono non solo nel caso di pazienti affetti da morbo di Alzheimer, ma anche in presenza di altre patologie degenerative, come la demenza senile, ovvero disabilità dovute a deficit cognitivi, occorrendo più in generale verificare se, in relazione alla malattia di cui è affetto il paziente, siano necessarie, per assicurargli la tutela del suo diritto soggettivo alla salute e alle cure, prestazioni di natura sanitaria che non possono essere eseguite se non congiuntamente alla attività di natura socio-assistenziale.

L’attività svolta nei confronti di una persona gravemente affetta da morbo di Alzheimer, ricoverata in istituto di cura, deve essere considerata a tutti gli effetti come attività sanitaria. Tale qualificazione comporta che la competenza ricade sul Servizio Sanitario Nazionale, come previsto dall’articolo 30 della legge 730/1983. Non è possibile, infatti, distinguere o separare le componenti sanitarie da quelle assistenziali all’interno delle prestazioni erogate, dato il loro stretto rapporto di interdipendenza e la chiara prevalenza delle cure sanitarie su quelle assistenziali.

Questa stretta correlazione tra le due tipologie di intervento trova ulteriore conferma nell’articolo 1 del Dpcm 8 agosto 1985, che pone come obiettivo principale la tutela della salute del cittadino. Ne consegue che tutte le prestazioni assistenziali fornite dalla struttura sanitaria pubblica, essendo inscindibilmente legate a quelle sanitarie e funzionali alla cura della persona, non possono essere oggetto di rivalsa nei confronti dei familiari. In altre parole, il costo delle prestazioni di natura assistenziale, strettamente connesse a quelle sanitarie, non è recuperabile tramite azioni nei confronti dei parenti del paziente.

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