Penale

Niente maltrattamenti in famiglia se la moglie tiene testa al marito

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di Selene Pascasi

Non si configura il reato di maltrattamenti in famiglia, se la moglie, presunta vittima del delitto, reagisce alle intemperanze del marito, senza mai assumere un atteggiamento di passiva soggezione nei suoi confronti. A sottolinearlo, è la Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 5258 resa il 13 novembre 2015, e depositata il 9 febbraio 2016. La decisione, nel confermare l’assoluzione pronunciata in secondo grado nei confronti di un uomo, accusato di aver commesso il reato di maltrattamenti in famiglia a danno della coniuge, sottolinea che – considerata la tipologia della coppia, formata da persone dotate di un livello di formazione professionale, cultura, posizione sociale ed economica ben superiore alla media – la donna non poteva dirsi ridotta ad una condizione di soggezione da parte del consorte. Anzi, ella aveva mostrato capacità reattiva.

 

La vicenda - Nel sostenerlo, la pronuncia si allinea a quella giurisprudenza ferma ad affermare come, ai fini integrativi del crimine di maltrattamenti in famiglia, non possa non valutarsi lo stato psicologico in cui finisce per versare la vittima, assoggettata a un regime di vita oggettivamente vessatorio e umiliante. Questione sulla quale i giudici, di legittimità e di merito, si sono più volte soffermati. Ma la Cassazione va oltre e, nel confermare la pronuncia assolutoria, ex articolo 572 del Cp, emessa nel precedente grado di giudizio, pone l’accento sulla rilevanza delle qualità personali delle parti. Prima di trattenersi sul punto, tuttavia, appare preliminare volgere un cenno ai fatti di causa.
Protagonista una coppia, i cui rapporti risultavano da tempo connotati da accesa conflittualità. Situazione più volte sfociata in atti violenti posti in essere, secondo le accuse, dal marito a danno della moglie. Di qui, la condanna dell’uomo, emessa dal G.u.p. per maltrattamenti in famiglia e violenza privata, a un anno di reclusione. Sentenza ribaltata in appello: assoluzione e revoca delle statuizioni civili. La condotta contestata, secondo la Corte, era dovuta alla “maleducazione” dell’imputato. Il caso, così, arriva in Cassazione.

Le doglianze - Sette le doglianze addotte dal difensore della donna, costituitasi parte civile. Tra queste, il vizio di motivazione della sentenza con cui il giudice del gravame avrebbe mancato di relazionare adeguatamente sugli argomenti posti a supporto della decisione, facendo mero «riferimento ad una asserita maleducazione dell’imputato, per giustificarne le condotte illecitamente tenute in ambito familiare». Errato, per il legale, anche l’aver ritenuto inattendibili le dichiarazioni rese dall’assistita, sol perché incardinate in un contesto conflittuale caratterizzato da alta tensione e da un astio verso il coniuge, che l’avrebbe indotta ad «enfatizzare taluni suoi comportamenti». A difettare, poi, anche il vaglio di carteggi e dichiarazioni testimoniali, rivelatori di programmi tessuti dal coniuge, spintosi fino al punto di installare un impianto di video-sorveglianza sulla casa attraverso il sistema di controllo da remoto, nell’ottica di sferrare un vero e proprio “attacco giudiziario” contro la moglie.

L a materialità del fatto - Tesi respinta dalla Cassazione, che rigetta il ricorso e conferma l’assoluzione dell’uomo. Va apprezzata, scrive, la ricostruzione, offerta in appello, del compendio storico-fattuale posto a fondamento dei temi d’accusa: la Corte, nell’escludere pregnanza penale alla condotta incriminata, aveva sovvertito il primo epilogo decisorio, all’esito di una rigorosa e penetrante analisi critica. Epilogo difforme, dunque, solo per la «maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversamente valutati». Tanto premesso, gli ermellini richiamano il solido pensiero giurisprudenziale per cui, ai fini integrativi del delitto di maltrattamenti in famiglia, la materialità del fatto deve consistere in «una condotta abituale che si estrinsechi con più atti che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o morale del soggetto passivo infliggendogli abitualmente tali sofferenze». E si annoti, quanto alla tipologia di atti, come la condotta delittuosa possa concretizzarsi sia in atti di percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni ed umiliazioni che il prevenuto infligga alla vittima, che in manifestazioni di disprezzo e offesa alla sua dignità, che finiscano per sottoporla a vere e proprie sofferenze morali (Tribunale di Firenze, Prima Sezione Penale, 2 dicembre 2015, n. 5213). Non potranno valutarsi, allora, singoli e sporadici episodi di percosse o lesioni, trattandosi di reato necessariamente abituale, caratterizzato – marca la Cassazione in lettura – da una «una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali, isolatamente considerati, potrebbero anche essere non punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica, etc.), ovvero non perseguibili (ingiurie, percosse o minacce lievi, procedibili solo a querela), acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo».

La giurisprudenza di merito - Ecco che, fatti episodici, proprio perché derivanti da situazioni contingenti e particolari della convivenza, non integrano il reato di cui all’articolo 572 del Cp (Tribunale di Bari, Prima Sezione Penale, 26 novembre 2015, n. 4140). E se non si ritiene essenziale che tali atti siano posti in essere per un tempo prolungato, se ne esigerà, quantomeno, la ripetizione, anche se per un limitato periodo, quali comportamenti sorti in seno alla comunità familiare o determinati dalla sua esistenza e sviluppo (Tribunale di Firenze, Seconda Sezione Penale, 16 dicembre 2015, n. 4264). Si imporrà, quindi, l’assoluzione per insussistenza del fatto, ove non si raggiunga la prova della reiterazione di condotte, fisicamente e moralmente violente, commesse nei confronti di moglie e figli (Tribunale di Genova, Seconda Sezione Penale, 10 giugno 2015, n. 3265). Ma non varrà ad escludere il reato, che gli atti lesivi si siano alternati con periodi di normalità, poiché, stante la natura abituale del delitto, l’intervallo di tempo tra una serie e l’altra di episodi lesivi non farà venir meno l’esistenza dell’illecito (Tribunale di Bari, Prima Sezione Penale, 15 ottobre 2015, n. 3224). In altre parole, deve escludersi che la compromissione del bene giuridico protetto si verifichi in presenza di semplici fatti che ledano ovvero mettano in pericolo l’incolumità personale, la libertà o l’onore di una persona della famiglia, essendo necessario, che tali fatti siano la componente di una più ampia ed unitaria condotta abituale, idonea ad imporle un regime di vita vessatorio, mortificante ed insostenibile.

Applicabilità alle convivenze - L’articolo 572 del codice penale , del resto, tutela non solo l’interesse dello Stato a salvaguardare la famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma appresta difesa anche all’incolumità fisica e psichica dei soggetti indicati nella norma, interessati al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari. Al riguardo, si annoti altresì come vittima del reato possa essere anche il convivente more uxorio, purché assoggettato al partner. Un rapporto di stabile convivenza, al di fuori della famiglia legittima, deve, difatti, ritenersi suscettibile di determinare obblighi di solidarietà e di mutua assistenza, senza che sia richiesto che tale convivenza abbia una determinata durata, quanto piuttosto che sia stata istituita in una prospettiva di stabilità, a prescindere dall’esito, in concreto, di tale comune decisione (Tribunale di Bari, Seconda Sezione Penale, 30 settembre 2015, n. 3289). Il delitto, in sintesi, può venire a sussistere in seno a qualsiasi relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale (Tribunale di Genova, 31 luglio 2015, n. 4111). Ed il reato, si riterrà commesso ai danni dell’intera famiglia ove la prole minore sia obbligata ad assistere a violenze e maltrattamenti posti in essere dall’un genitore a danno dell’altro, riverberandosi tali condotte necessariamente sui figli nella forma della cosiddetta violenza assistita (Tribunale di Bari, Seconda Sezione Penale, 31 marzo 2015, n. 131). Parimenti si conclude, nell’ipotesi in cui gli episodi siano commessi dinanzi alla prole del convivente (Cassazione pen., Sez. VI, 29 gennaio 2015, n. 4332).

Il dolo - Tornando alla condotta, come anticipato, la si individua in una serie di atti lesivi (Tribunale Bari, Prima Sezione Penale, 8 gennaio 2016, n. 15) di diritti fondamentali della persona, inquadrabili all’interno di una cornice unitaria caratterizzata dall’imposizione al soggetto passivo di un regime di vita oggettivamente vessatorio ed umiliante (Cassazione pen., Sezione VI, 22 dicembre 2010, n. 45037). Ecco perché, in relazione al delitto di maltrattamenti in famiglia, il dolo assume carattere unitario, fungendo – ricordano i giudici della sentenza in commento – da «elemento unificatore della pluralità di atti lesivi della personalità della vittima», che si concretizza «nell’inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatoria che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si va via via realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte». Trattasi, in buona sostanza – annota il Tribunale di Ivrea, con pronuncia del 21 settembre 2015, n. 152 – di un reato abituale, nel cui ambito il dolo non richiede la sussistenza di uno specifico programma criminoso. Ciò che rileva, dunque, è che gli atti di sopraffazione sistematica siano sorretti dal dolo generico, integrato dalla volontà cosciente di ledere l’integrità fisica e morale della moglie (Corte di Appello di Taranto, 8 settembre 2015, n. 832). Difatti, il delitto di maltrattamenti in famiglia, dando vita ad un sistema tormentato per la vittima, si sostanzia in una serie di fatti, necessariamente uniti «da un dolo unitario, perdurante e pressoché programmatico che li abbraccia e fonde in una sola e diversa entità criminosa che si sostanzia nella volontà cosciente di infierire su una persona di famiglia sì da renderle la vita impossibile» (Tribunale di Genova, n. 4111/15, cit.).

“V ita impossibile - Ma cosa si intende per vita impossibile, soggezione all’autore del reato e soggiogazione della vittima? Intanto, non è richiesta una totale sottomissione all’autore della condotta, tutelando, il precetto codicistico, la normale tollerabilità della convivenza. Per lo stesso motivo, incluse nel perimetro penale, non saranno soltanto le offese all’integrità fisica, ma anche le ingiurie, le minacce, le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, così come gli atti di disprezzo ed offesa lesivi della sua dignità personale. Di conseguenza, si dovrà, di volta in volta, verificare se l’agire irrispettoso tenuto da un familiare nei confronti dell’altro, abbia assunto connotati tanto gravi, da rappresentare per il soggetto passivo, fonte abituale di sofferenze fisiche e morali, o se si concreti nell’inosservanza cosciente e volontaria dell’obbligo, nascente dal matrimonio, di assistenza morale e affettiva verso il coniuge (Tribunale di Campobasso, 7 settembre 2015, n. 638). Sarà doveroso accertare, pertanto, se la condotta incriminata possa ritenersi dotata di un carattere meramente estemporaneo e occasionale – essendo stata semplice espressione reattiva di uno stato di tensione, sempre verificabile nella vita affettiva – o se l’azione si fosse concretata nell’inosservanza cosciente e volontaria dell’obbligo di assistenza morale ed affettiva verso l’altro coniuge, obbligo che scaturisce dal vincolo matrimoniale e che ha la finalità di garantire che l’altro, in caso di difficoltà, non sia mai lasciato solo a sé stesso (Tribunale di Padova, 16 febbraio 2015, n. 352). Il reato, ad ogni modo, verrà a configurarsi, a fronte di atti di violenza fisica o morale rivolti a familiari conviventi, senza che lo stato di sofferenza ed umiliazione della vittima debba necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori, potendo derivare anche dall’imposizione alla persona offesa di un regime di vita oggettivamente umiliante, a prescindere dall’entità numerica delle sopraffazioni (Corte di Appello di Napoli, Settima Sezione Penale, 29 luglio 2015, n. 4288).

Attendibilità della vittima - Si impone, infine, in chiusura di trattazione, un richiamo alla tematica inerente l’attendibilità della deposizione della vittima. Il suo racconto, come è ormai noto, pur se da valutare con la dovuta cautela, è soggetto «al solo limite ordinario dell’attendibilità, senza necessità di riscontri esterni» (Corte di Appello di Napoli, Sesta Sezione Penale, 7 luglio 2015, n. 2702), laddove, ai fini dell’affermazione della responsabilità penale dell’imputato, il narrato dell’offesa, anche se parte civile, può costituire di per sé, prova piena, purché l’analisi della credibilità soggettiva ed oggettiva della vittima abbia avuto esito positivo, e non si innesti in situazioni concrete che inducano a dubitare della sua attendibilità (Corte di Appello di Trento, 9 gennaio 2015, n. 381).

Il contesto socio culturale - Principi, quelli finora enunciati ed esplicati, cui la decisione resa dal Collegio di secondo grado, scrive la Cassazione, si era uniformata, escludendo la sussumibilità della condotta del coniuge nel reato di maltrattamenti, dovendosi, più correttamente, leggere le risultanze processuali nel contesto, qualitativo e temporale, della tipologia delle relazioni familiari intercorse fra i consorti, dotati ambedue (lui notaio, lei avvocato) di cultura e condizioni socio economiche ben superiori alla media. Circostanza, questa, da innestare nell’ambito di un rapporto fortemente conflittuale che, in sede di separazione personale, aveva persino indotto il Presidente del Tribunale – constatato il disagio arrecato dai genitori alla prole – a disporre, in via provvisoria ed urgente «l’affievolimento della potestà di entrambi a favore dell’affidamento della minore ai servizi sociali, e ad ammonirli sulla gravità delle conseguenze giuridiche ed esistenziali delle loro inadempienze». Così, quanto alla definizione del processo penale, se da un lato, era emerso il «temperamento irascibile e non incline alla moderazione» del coniuge, dall’altro, non poteva non pesare sul piatto della bilancia, la«costante capacità reattiva della moglie e l’assenza di un supino atteggiamento rispetto alle intemperanze anche verbali del marito». A chiudere il cerchio, il quadro di un matrimonio, protrattosi per anni tra persone passionali, connotato da continui diverbi, incomprensioni e litigi. Da escludersi, allora, quella sistematica prevaricazione di un coniuge nei confronti dell’altro, che avrebbe potuto giustificare una condanna per maltrattamenti in famiglia. Rigettato, per gli esposti motivi, il ricorso promosso dalla signora.

 

La massima

Delitti contro l’assistenza familiare – Maltrattamenti contro familiare e conviventi. Condotta della presunta vittima – Reazione – Mancata soggezione al soggetto attivo – Rilevanza. Configurabilità del reato – Esclusione. (Cp, articolo 572)

In materia di maltrattamenti in famiglia, va esclusa la configurabilità del reato se la moglie, presunta vittima del delitto, non assume un atteggiamento di soggezione passiva nei confronti del marito, ma reagisce alle sue intemperanze. 

 

Corte di Cassazione - Sezione Sesta Penale - Sentenza 9 febbraio 2016 n. 5258

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