No a rimborso di spese legali al dipendente pubblico assolto se vi è stata negligenza grave
Il fine perseguito dal rimborso delle spese legali in sede di giudizio è di proteggere chi agisce nell’interesse dell’Amministrazione e non chi, in servizio, adotta comportamenti inaffidabili, ambigui o non tracciati
Il Consiglio di Stato - con la sentenza n. 9028/2025 - ha chiarito che il rimborso delle spese legali ai dipendenti pubblici assolti non opera quando la condotta accertata in sede disciplinare risulta incompatibile con il modello di diligenza e correttezza che caratterizza l’esercizio delle funzioni.
La decisione afferma un principio innovativo: non basta che il fatto sia avvenuto durante il servizio, né che il processo penale si sia concluso con l’assoluzione piena.
Serve che l’azione sia stata davvero strumentale all’adempimento dei doveri istituzionali. Se il comportamento, pur inserito nel contesto operativo, è valutato come atipico, non conforme o addirittura negligente dall’Amministrazione, viene meno la connessione funzionale che giustifica la copertura delle spese. Il giudice amministrativo eleva così il ruolo del giudizio disciplinare quale parametro interno di coerenza tra funzione, condotta e tutela legale, ponendo un limite innovativo all’automatismo invocato tradizionalmente dai dipendenti assolti.
La vicenda nasce nel corso di un ordinario servizio autostradale, quando due agenti di polizia rinvengono un giubbotto in un’area di servizio. L’indumento viene prelevato, ispezionato e successivamente abbandonato pochi chilometri più avanti. In seguito emerge che nel giubbotto era custodita una somma rilevante di denaro e ai due agenti viene contestata l’appropriazione.
La lunga vicenda penale si chiude con l’assoluzione piena, fondata sull’impossibilità di ricostruire con certezza il momento in cui il denaro avrebbe potuto essere sottratto e sulla concreta possibilità che terzi abbiano avuto accesso al capo smarrito.
Terminato il processo, i due interessati chiedono il rimborso delle spese legali sostenute. L’Amministrazione, però, aveva già definito la vicenda disciplinare, ritenendo non veritiera la versione fornita dagli operatori circa lo stato dell’indumento e qualificando come grave negligenza l’abbandono dell’oggetto senza alcuna annotazione di servizio. Ed è questa valutazione interna, divenuta definitiva, a orientare poi la decisione di rigetto delle domande di rimborso, poi contestata davanti al giudice amministrativo.
L’interpretazione innovativa
Il principio centrale affermato dal Consiglio di Stato si colloca su un piano di forte innovazione. Il giudice chiarisce che la tutela legale non è una sorta di assicurazione automatica destinata a scattare ogni volta che un dipendente sia assolto con formula piena, ma un istituto che richiede una valutazione complessiva dell’agire professionale.
La novità consiste nel riconoscere alla dimensione disciplinare un peso non meramente accessorio, bensì strutturale nell’identificare l’esistenza o meno della connessione funzionale che fonda il rimborso.
L’atto disciplinare definitivo diviene così un indicatore qualificato della conformità tra condotta e doveri d’ufficio:
- se esso accerta una deviazione significativa dal modello di comportamento dovuto, la copertura economica delle difese non è più giustificabile.
In questo modo, l’Amministrazione non è costretta a sostenere costi derivanti da comportamenti che, pur non penalmente rilevanti, risultano comunque incompatibili con la qualità del servizio pubblico.
L’impatto interpretativo è evidente. La sentenza richiama una nozione sostanziale e non meramente occasionale del rapporto tra fatto e servizio. La semplice coincidenza temporale o spaziale tra attività lavorativa e condotta non basta: ciò che conta è il legame intrinseco tra il dovere istituzionale e l’azione concreta, valutata non astrattamente, ma alla luce degli standard interni di professionalità e prudenza.
Il fine perseguito dal rimborso
La decisione sottolinea inoltre che il rimborso delle spese legali serve a proteggere chi agisce nell’interesse dell’Amministrazione, non chi, pur in servizio, adotta comportamenti inaffidabili, ambigui o non tracciati. La sentenza spinge così verso un sistema più coerente con la responsabilità professionale, in cui l’assoluzione penale elimina la colpa giudiziaria ma non sana eventuali deviazioni dal modello funzionale dell’ente. L’innovazione sta proprio in questa distinzione: l’Amministrazione viene riconosciuta nella sua autonomia di valutazione interna, purché esercitata in modo non arbitrario, e la tutela legale diventa una misura selettiva, legata alla qualità del servizio e non solo all’esito processuale.
È un principio che, pur rigoroso, mira a rafforzare affidabilità, trasparenza e correttezza dell’azione amministrativa. La pronuncia apre quindi a una stagione interpretativa più esigente, in cui l’agire del dipendente non è valutato solo ex post, ma alla luce della sua coerenza con la funzione pubblica. L’accento posto sul comportamento “tipico” segna una svolta culturale: il servizio non è solo contesto, ma criterio di responsabilità.
In questo modo il rimborso diventa davvero uno strumento di tutela della buona amministrazione, non un beneficio automatico. La decisione, quindi, richiama gli operatori pubblici alla massima responsabilità: ogni gesto, anche minimo, incide sulla fiducia nell’istituzione e determina l’accesso o meno alle garanzie difensive.






