Civile

«Nonsolomoda», è un brand di Rti e il sarto non può usarlo per il sito

Parole che considerate da sole non sono distintive lo diventano se unite

di Patrizia Maciocchi

Anche le parole che, considerate separatamente, non sono distintive, possono essere un brand se valutate unitamente. È il caso del marchio di insieme che, pur essendo privo di un elemento che lo caratterizza si distingue grazie alla combinazione. Valorizzando questo principio la Cassazione (sentenza 25070) accoglie il ricorso di Reti televisive italiane, che rivendicava l’esclusiva del marchio «Nonsolomoda», registrato e identificativo di una trasmissione in onda su Canale 5. A registrarlo, circa tre anni dopo, era stato però anche un sarto che lo aveva scelto come dominio di un sito web nel quale reclamizzava l’ attività di sarto e anche la vendita di prodotti di telefonia.

Rti aveva citato in giudizio sia l’artigiano sia l’hosting provider che, malgrado le lettere di diffida non aveva rimosso il servizio. La rete televisiva aveva perso in appello.

La Corte territoriale, infatti, aveva considerato non brevettabile il marchio ritenendolo solo un segno divenuto di uso comune nel linguaggio corrente. Questo perché le tre parole in sé analizzate, non descrivevano nulla. La Suprema corte, nell’accogliere il ricorso, ricorda la differenza tra marchio complesso e il marchio d’insieme, nel quel rientra il brand conteso.

Il marchio complesso è composto da più elementi ciascuno dei quali lo caratterizza, anche se la forza distintiva è affidata a quello che costituisce il “cuore” del marchio.

Diverso il caso del marchio di insieme in cui nessun elemento è distintivo e il valore si conquista con la combinazione di tutti .

La Corte d’appello ha escluso che la locuzione esaminata si fosse distinta solo in virtù della messa in onda del programma Tv, e dunque che potesse ricevere protezione in virtù del secondary meaning.

Per la Cassazione, al contrario, la messa in onda del format per anni era utile a far acquisire un valore semantico che va oltre quello semplicemente descrittivo.

Per la Suprema corte ci sono anche gli estremi per i danni da quantificare in via equitativa, in base all’articolo 125 comma 2 del Codice della proprietà industriale. Il criterio da applicare è dunque quello del lucro cessante, da “indennizzare” secondo la giusta royalty virtuale: il prezzo che sarebbe stato pagato dall’autore della violazione se avesse ottenuto la licenza.

Quanto alla responsabilità del provider che continua a pubblicare questa scatta se ricorrono congiuntamente alcune condizioni: abbia una conoscenza legale dell’illecito, sia ragionevolmente contestabile l’illiceità dell’altrui condotta e scatti per lui una colpa grave per non averla positivamente riscontrata secondo la diligenza che ci si può attendere da un operatore professionale della rete.

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