Penale

Oltraggio a pubblico ufficiale, nessun reato se non sono presenti civili e l’offesa resta “interna”

L’offesa per essere considerata “oltraggiosa” deve colpire il decoro dell’istituzione pubblica e non del singolo pubblico ufficiale e la presenza di terzi estranei alla funzione pubblica o all’atto da compiere è elemento necessario

di Pietro Alessio Palumbo

La sentenza n. 35233/2025 della Corte di cassazione introduce una significativa precisazione sull’elemento costitutivo della “presenza di più persone” nel delitto di oltraggio a pubblico ufficiale.

La Corte chiarisce che tale requisito non può ritenersi integrato quando i soggetti presenti siano unicamente altri pubblici ufficiali intenti nello stesso atto d’ufficio, poiché l’offesa non si proietta all’esterno dell’amministrazione.
L’episodio, se confinato in ambito strettamente amministrativo, non realizza quella lesione dell’onore e del prestigio che la norma mira a prevenire. La decisione ridefinisce la soglia di tipicità della condotta, spostando l’asse del reato dalla mera pronuncia offensiva al suo contesto relazionale: ciò che rileva non è solo “cosa si dice” ma “davanti a chi” viene detto. Un orientamento che restituisce coerenza sistematica alla tutela dell’immagine della pubblica funzione.

Il caso concreto risolto

La vicenda nasce da un episodio di ricorrente tensione tra cittadino e pubblici agenti. Una sanzione per divieto di sosta accende una reazione scomposta: parole concitate, un gesto di stizza, un bollettario strappato e gettato via. La discussione si sposta poi all’interno di un ufficio pubblico, dove la pretesa di ottenere l’annullamento del verbale degenera in nuovi toni accesi e in un contatto fisico con l’agente che aveva elevato la multa. Nessun civile era presente; solo personale in divisa, impegnato nelle stesse funzioni.

In primo grado l’imputato era stato assolto, ma in appello la condotta era stata riqualificata come oltraggio ai sensi dell’articolo 341-bis del Codice penale, con relativa condanna.
Ma la Cassazione ribalta la decisione: mancando la percezione esterna dell’offesa, il fatto non sussiste. La lesione, afferma la Corte, resta interna al rapporto personale e non si estende alla sfera pubblica che il reato intende proteggere: il prestigio dello Stato.

Il principio di diritto espresso è di notevole impatto sistematico. La Suprema Corte individua nell’esteriorità del contesto comunicativo l’elemento qualificante dell’oltraggio. L’offesa deve verificarsi “in presenza di più persone” non in senso meramente numerico ma funzionale: il pluralismo percettivo deve garantire che la lesione si rifletta sul prestigio dell’istituzione. Quando i soli presenti sono soggetti che operano nello stesso procedimento o nello stesso atto d’ufficio, l’offesa rimane chiusa nel circuito istituzionale e non produce quella perdita di autorevolezza che giustifica l’intervento penale. Ne deriva una distinzione netta tra la tutela dell’onore personale e quella del decoro istituzionale: la prima è affidata agli ordinari strumenti civilistici o alle contravvenzioni minori, la seconda richiede una diffusione effettiva dell’offesa nella sfera sociale.

La pronuncia valorizza, dunque, la componente comunicativa del reato, configurando l’oltraggio come una condotta che si consuma nella relazione con un pubblico, reale e non virtuale. Non basta la semplice idoneità di una frase a ledere la reputazione del funzionario pubblico, ma occorre che essa sia percepita da persone estranee alla funzione in corso, in grado di cogliere il significato offensivo e di rifletterlo sul prestigio dell’amministrazione. In tal modo la Cassazione recupera la dimensione pubblicistica della norma, sottraendola a interpretazioni che rischiavano di trasformarla in un presidio di tutela soggettiva del singolo funzionario. È un passo di chiarezza, che delimita l’area del penalmente rilevante e restituisce al diritto penale la sua funzione di extrema ratio, coerente con il principio di offensività.

Sotto il profilo applicativo, la sentenza impone un accertamento rigoroso: il giudice di merito deve verificare non solo la natura e il contenuto dell’offesa, ma anche la qualità dei presenti e il contesto spazio-temporale in cui la condotta si è manifestata. La semplice compresenza di altri agenti o impiegati pubblici non soddisfa il requisito della pluralità di persone, poiché questi partecipano alla stessa funzione e non rappresentano il pubblico a cui si riferisce la norma. La portata innovativa del principio è evidente: il requisito della “pubblicità” dell’offesa diventa non una mera condizione ambientale, ma un elemento sostanziale che definisce la ragion d’essere del reato.

In prospettiva, la decisione potrebbe incidere profondamente sulla prassi giudiziaria, riducendo le contestazioni per oltraggio a quei soli casi in cui l’offesa si proietti concretamente nella sfera collettiva. Il messaggio è chiaro: la dignità del pubblico ufficiale coincide con la credibilità dell’istituzione solo quando la condotta offensiva diventa visibile alla comunità. La sentenza afferma, in sostanza, che il prestigio della funzione non è un bene autoreferenziale, ma vive nella relazione con i cittadini. Il reato di oltraggio, allora, non punisce la mancanza di rispetto verso la persona, ma la frattura che si apre nella percezione sociale dell’autorità pubblica, la trasparenza e l’autorevolezza dello Stato.

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