Civile

Possibile la rinuncia alla proprietà in caso di dissesto idrogeologico

Per le Sezioni unite, sentenza n. 23093/2025, si tratta di un atto unilaterale non recettizio; la finalità egoistica non integra la nullità o abuso del diritto

di Francesco Machina Grifeo

È possibile la rinuncia da parte di un privato alla proprietà di terreni “inservibili”, “franosi”, in “dissesto idrogeologico” con conseguente acquisizione degli stessi al patrimonio dello Stato, scaricando così sull’amministrazione i relativi oneri e limiti all’utilizzo? A questa domanda rispondono affermativamente le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza n. 23093 dell’11 agosto scorso, a seguito del rinvio pregiudiziale dei Tribunali di L’Aquila e di Venezia.

Con una molto rilevante ed articolata decisione la Suprema corte affronta dunque il tema della “rinunciabilità del diritto di proprietà immobiliare” premettendo che si tratta di un “problema” che “non può dirsi recente” ma che data sin dal diritto romano (la rinuncia all’epoca era ricompresa nella più ampia facoltà di derelictio).

Nelle due situazioni affrontate gli immobili risultano sottoposti a vincoli conformativi della proprietà privata finalizzati alla tutela dell’interesse pubblico alla stabilità e alla difesa dell’assetto idrogeologico del territorio, “il che – annota la Corte - comporta la prescrizione di limiti ed obblighi alle rispettive facoltà dominicali”. Entrambi i proprietari hanno rinunciato con atto notarile alla proprietà ma il Ministero dell’Economia e l’Agenzia del demanio hanno impugnato gli atti sostenendo la non configurabilità nel nostro ordinamento di una “generica facoltà di rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare”, e dunque la illiceità o non meritevolezza della causa dell’atto impugnato, o la illiceità del motivo determinante, o la frode alla legge, o ancora l’abuso del diritto. (Attualmente, secondo i dati di Via XX Settembre, sull’intero territorio nazionale risultano istruiti 128 affari legali connessi alla c.d. rinuncia abdicativa dei quali n. 89 pendenti dinanzi all’Autorità Giudiziaria e n. 39 in fase stragiudiziale).

Per i giudici di legittimità, tuttavia, “se il fondamento della irrinunciabilità della proprietà degli immobili si voglia spiegare per le asserite prevalenti ragioni di tutela dell’interesse generale, è indimostrato … il dato che una migliore tutela dell’interesse della collettività sia garantita dalla preclusione dell’effetto dismissivo antisociale e dalla permanente titolarità imposta al rinunciante”. E allora in caso di rinuncia formale alla proprietà di un immobile, essenzialmente votato alla perdita del diritto, non può invocarsi lo scopo della funzione sociale - che l’art. 42, secondo comma, Cost. impone alla normazione conformativa del contenuto del diritto di proprietà - per decidere della validità di tale atto, affidando al giudice un “sindacato di costituzionalità” della medesima rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare in nome di un bilanciamento di interessi da sovrapporre a quello operato nel codice civile.

Le Sezioni Unite hanno allora affermato due importanti principi di diritto. Con il primo hanno chiarito che la rinuncia alla proprietà immobiliare «è atto unilaterale e non recettizio, la cui funzione tipica è soltanto quella di dismettere il diritto, in quanto modalità di esercizio e di attuazione della facoltà di disporre della cosa accordata dall’art. 832 c.c., realizzatrice dell’interesse patrimoniale del titolare protetto dalla relazione assoluta di attribuzione, producendosi ex lege l’effetto riflesso dell’acquisto dello Stato a titolo originario, in forza dell’art. 827 c.c., quale conseguenza della situazione di fatto della vacanza del bene›. Ne discende – proseguono gli Ermellini - che la rinuncia alla proprietà immobiliare espressa dal titolare ‹‹trova causa››, e quindi anche riscontro della meritevolezza dell’interesse perseguito, in sé stessa, e non nell’adesione di un ‹‹altro contraente››.

Con il secondo enunciato si afferma che quando «la rinuncia alla proprietà immobiliare, atto di esercizio del potere di disposizione patrimoniale del proprietario funzionalmente diretto alla perdita del diritto, appaia, non di meno, animata da un «fine egoistico», non può comprendersi tra i possibili margini di intervento del giudice un rilievo di nullità virtuale per contrasto con il precetto dell’art. 42, secondo comma, Cost., o di nullità per illiceità della causa o del motivo›. Ciò, spiega la Corte, «sia perché le limitazioni della proprietà, preordinate ad assicurarne la funzione sociale, devono essere stabilite dal legislatore, sia perché non può ricavarsi dall’art. 42, secondo comma, Cost., un dovere di essere e di restare proprietario per «motivi di interesse generale».

Inoltre, conclude la decisione, «esprimendo la rinuncia abdicativa alla proprietà di un immobile essenzialmente l’interesse negativo del proprietario a disfarsi delle titolarità del bene, non è configurabile un abuso di tale atto di esercizio della facoltà dominicale di disposizione diretto a concretizzare un interesse positivo diverso da quello che ne giustifica il riconoscimento e a raggiungere un risultato economico non meritato».

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