Il CommentoComunitario e Internazionale

Trasmissione nel procedimento tributario delle intercettazioni acquisite in ambito penale, quali limiti?

I limiti alla libera circolazione del materiale probatorio tra procedimento penale e procedimento tributario, nell’ordinamento italiano, alla luce dei principi sanciti dalla Corte EDU nella sentenza Ships Waste Oil Collector

Una recente sentenza della Grande Camera della Corte EDU chiarisce i limiti alla possibilità di riversare in un procedimento amministrativo prove derivanti da intercettazioni di conversazioni telefoniche operate in ambito penale onde tutelare il diritto al rispetto della vita privata. Limiti che l’ordinamento tributario italiano non sembra conoscere, essendo principio finora indiscusso quello per cui, salvo che ciò non pregiudichi l’efficacia delle indagini penali, le autorità fiscali sono sempre libere di acquisire ed utilizzare le risultanze di tali indagini ai fini dell’accertamento di imposta.

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La sentenza del 1° aprile 2025 nel caso Ships Waste Oil Collector B.V. and others v. The Netherlands, n. 2799/16 et al., merita alcune importanti riflessioni per ciò che concerne il potere dell’Amministrazione finanziaria di adoperare, ai fini dell’accertamento dell’evasione di imposta e dell’irrogazione delle sanzioni amministrative, i dati emersi a seguito di intercettazioni disposte nell’ambito di un distinto procedimento penale.

Il caso posto all’esame dei giudici europei trae origine da una serie di indagini penali condotte nei Paesi Bassi nei confronti di alcune società attive nel settore del trattamento dei rifiuti oleosi derivanti da attività marittime. Le autorità olandesi sospettavano che alcune di esse avessero partecipato a intese anticoncorrenziali e a pratiche di cartello nella gestione dei rifiuti portuali. Durante le indagini penali, la polizia aveva disposto intercettazioni telefoniche nei confronti di alcuni dirigenti delle imprese. Successivamente, il Pubblico Ministero aveva autorizzato la trasmissione di parte delle registrazioni e dei verbali all’Autorità garante della concorrenza (NMA – Nederlandse Mededingingsautoriteit), che stava conducendo una separata indagine amministrativa in materia di violazione della normativa antitrust. Sulla base anche del materiale proveniente dalle intercettazioni, l’NMA concluse che le società avevano coordinato le proprie offerte e prezzi nel mercato del recupero dei residui oleosi delle navi, in violazione della legge olandese sulla concorrenza (Mededingingswet) e dell’art. 101 TFUE. Con decisione del 2012, l’Autorità inflisse pesanti sanzioni pecuniarie a tutte le imprese coinvolte.

Esauriti i rimedi interni, tutti concordi nel confermare la legittimità dell’operato delle autorità amministrative, le società ricorrenti si sono quindi rivolte alla Corte di Strasburgo, denunciando sia la violazione dell’art. 8 CEDU, in quanto la trasmissione alle autorità amministrative di materiale risultante dalle intercettazioni disposte nell’ambito di un procedimento penale d’intercettazione a fini amministrativi costituiva un’ingerenza non prevista dalla legge e priva di garanzie sufficienti, sia la violazione dell’art. 13 della medesima Convenzione, poiché in Olanda non esisteva un ricorso effettivo e tempestivo per opporsi a tale trasmissione prima che i dati fossero utilizzati.

In prima battuta, il ricorso è stato esaminato da una Camera ordinaria, che, con una sentenza del 16 maggio 2023, ha respinto i ricorsi, reputando che non vi fosse stata violazione, secondo la maggioranza dei giudici, del diritto al rispetto della vita privata e, all’unanimità, del diritto a godere di un rimedio giurisdizionale effettivo. Le società ricorrenti, infine, hanno domandato il rinvio della questione alla Grande Camera ai sensi dell’art. 43 della Convenzione che, stante la notevole rilevanza sistemica della questione, è stato accordato.

Dunque, su sollecitazione delle parti private e nel contraddittorio con il governo olandese e quello inglese intervenuto ad adiuvandum, la Grande Camera si è quindi interrogata sia se la trasmissione dei dati intercettati ad un’autorità amministrativa rappresenti una nuova ingerenza autonoma nei diritti garantiti dall’art. 8, distinta dall’intercettazione originaria, e, dunque, su quali fossero le garanzie imprescindibili affinché tale ingerenza sia conforme ai criteri di legalità, necessità e proporzionalità, sia se la possibilità di un controllo giurisdizionale ex post basti, ai sensi dell’art. 13 CEDU, a rendere effettiva la tutela del diritto violato. 

In questo contesto, la Grande Camera, ricordato anzitutto che le garanzie minime dell’art. 8 CEDU si applicano in modo sostanzialmente identico a persone fisiche e giuridiche, poiché entrambe possono subire danni derivanti da un uso improprio di informazioni riservate, e rilevato che dalla propria giurisprudenza si potevano trarre conclusioni divergenti circa la questione in esame( ), ha in primo luogo stabilito che la trasmissione ad un’altra autorità di dati provenienti da intercettazioni penali non sia un atto neutro, bensì costituisce una nuova e distinta interferenza nel diritto al rispetto della vita privata e della corrispondenza garantito dall’art. 8 CEDU. Ciò, infatti, incrementa il numero di persone portate a conoscenza dei dati captati e può condurre ad altre indagini o azioni contro i soggetti di tali dati ed è perciò indispensabile procedere ad una nuova valutazione di legittimità della misura.

La Corte, tuttavia, ricorda che il diritto al rispetto della vita privata non è assoluto ma può cedere dinanzi ad interessi generali prevalenti a determinate condizioni, come previsto dalla stessa Convenzione al paragrafo 2 dell’art. 8. Non ogni ingerenza nell’esercizio di tale diritto da parte di un’autorità pubblica è infatti legittima, ma soltanto quella “prevista dalla legge”, sottendendo tale espressione non tanto e non soltanto all’esistenza di una base legale interna, quanto al rispetto dei requisiti diqualità” della legge, quali l’accessibilità alla persona interessata e la prevedibilità degli effetti, e alla circostanza di rappresentare una misura necessaria e proporzionata in una società democratica per la salvaguardia di interessi considerati primari.

Ora, seppur il grado di ingerenza della successiva fase di trasmissione del dato sia minore rispetto a quello della fase di acquisizione dello stesso, sul presupposto che le garanzie procedurali, quali quelle relative alle autorizzazioni, e sostanziali, quali quelle relative alle motivazioni su cui può basarsi un ordine di intercettazione, previste dalle leggi interne limitano, almeno in parte, i rischi di arbitrarietà e abuso nella successiva fase di trasmissione, nel contesto della protezione dei dati, è necessario che lo Stato istituisca norme chiare e dettagliate che legittimino l’uso dei dati per un nuovo e diverso scopo da quello per cui gli stessi sono stati raccolti e, pertanto, giustifichino l’adozione della misura invasiva.

Sulla base di tali premesse, la Corte ha definitivamente chiarito che la legge dello Stato deve prevedere chiaramente le condizioni da rispettare affinché i dati possano essere trasmessi, le circostanze che consentono alle autorità pubbliche competenti di ricorrere a tali misure, l’estensione della discrezionalità conferita alle stesse, le garanzie relative all’esame, alla conservazione, all’uso e all’eventuale distruzione dei dati trasmessi. La Corte ha, al riguardo, formulato due precisazioni: in primo luogo, la legge interna deve essere sufficientemente chiara da proteggere adeguatamente un individuo dalle ingerenze arbitrarie ma la chiarezza non deve tradursi in rigidità del dettato normativo tale da implicare che tutte le circostanze che legittimano la trasmissione dei dati siano elencate nella legge; in secondo luogo l’art. 8 della CEDU non garantisce un diritto ad essere informati preventivamente della trasmissione né una partecipazione alla procedura di autorizzazione, soprattutto quando occorre salvaguardare la segretezza delle indagini penali ancora in corso.

Tuttavia, l’esistenza di una base legale interna, pur indispensabile, non basta a legittimare un’ingerenza nei diritti dell’interessato, occorrendo altresì la possibilità di individuare un interesse generale prevalente che giustifichi l’adozione della misura. L’autorità competente deve poter dimostrare che il soggetto destinatario sia individuato da norme chiare e che la trasmissione avvenga in conformità ai fini legittimi previsti. Una volta accertata la sussistenza di un interesse pubblico prevalente, l’autorità deve giustificare la trasmissione in termini di necessità e proporzionalità, valutando dunque se l’obiettivo del soggetto destinatario possa essere raggiunto mediante una misura meno intrusiva ovvero mediante una modalità di trasmissione e/o selezione delle informazioni che non interferisca sproporzionatamente con i diritti dell’interessato. La Corte ha altresì precisato che l’ampiezza del margine di apprezzamento di cui godono le autorità nazionali dipende dal contenuto e dalla natura dei dati trasmessi, tanto più ridotto quanto più i dati siano sensibili. Infine, ha riconosciuto che, sebbene sia auspicabile una motivazione scritta dell’autorità in ordine alla necessità e proporzionalità della misura, la sua assenza non comporta automaticamente una violazione dell’art. 8, purché sia compensata da un controllo effettivo ex post, esercitato da un organo giurisdizionale o da un organismo indipendente, capace di riesaminare de novo la legittimità della trasmissione e di assicurare adeguata tutela contro arbitrarietà e abusi.

La Grande Camera ha infine ritenuto, nello specifico caso sottoposto al suo esame, non violati gli artt. 8 e 13 CEDU: la base legale olandese è stata giudicata sufficientemente accessibile e prevedibile; la trasmissione era limitata e funzionale ai fini di enforcement della concorrenza; i ricorrenti hanno beneficiato di un controllo giurisdizionale ex post effettivo, idoneo a neutralizzare eventuali deficit motivazionali ex ante.

Muovendo dai principi affermati dalla Corte EDU, che impongono un controllo specifico e autonomo sulla trasmissione dei dati rispetto alla fase di acquisizione penale, occorre ora interrogarsi se l’ordinamento italiano disponga di garanzie conformi alle prescrizioni impartite dalla Grande Camera; in particolare, data la rilevanza sistematica della questione, ciò che in questa sede interessa valutare è se tali garanzie siano rispettate con riferimento al tema della trasmissione delle intercettazioni acquisite nell’ambito di indagini penali a favore delle Agenzie fiscali per l’accertamento dell’evasione di imposta e l’irrogazione delle relative sanzioni amministrative. Si tratta, a ben vedere, di un tema di scottante attualità, considerate sia la frequenza con cui l’Agenzia delle Entrate adotta provvedimenti impositivi e sanzionatori che fanno leva proprio su prove di queste genere, sia il proliferare delle fonti di “corrispondenza” oggetto di captazione, corrispondenti all’evoluzione tecnologica dei mezzi di comunicazione, tale per cui può facilmente assistersi al riversamento nel procedimento tributario del contenuto di e-mail o di “chat” scambiate attraverso i comuni sistemi di messagistica (come, ad esempio, Whatsapp o simili).

Ora, è oramai assodato come l’impianto normativo preposto a disciplinare i poteri di indagine e accertamento delle Autorità fiscali sia fortemente carente rispetto alle garanzie assicurate dall’art. 8 della CEDU. Basti a tale proposito richiamare l’oramai arcinota, sentenza della Corte EDU del 6 febbraio 2025 resa nel caso I., n. 36617/18, laddove ha censurato la mancanza di adeguate ed efficaci garanzie in favore dei contribuenti sottoposti ad accessi, ispezioni e verifiche da parte delle Autorità fiscali, posto che non è previsto né un controllo ex ante mediante una delimitazione della discrezionalità consentita ai verificatori nell’ambito dell’attività di accertamento né un controllo ex post sul legittimo svolgimento dell’attività accertatrice.

In questa prospettiva, osserviamo che l’ordinamento italiano prevede la libera trasmissibilità e dunque l’utilizzabilità delle intercettazioni assunte nel procedimento penale nel parallelo procedimento tributario con il limite che, nel secondo, le risultanze delle intercettazioni potranno concorrere al libero convincimento del giudice tributario a titolo unicamente indiziario. Infatti, dal principio di autonomia del procedimento penale rispetto a quello tributario la giurisprudenza maggioritaria italiana fa discendere l’interpretazione secondo cui il divieto posto dall’art. 270 c.p.p. di utilizzare le risultanze delle intercettazioni in procedimenti diversi da quello nel quale sono state disposte non opera nel contenzioso tributario, ma soltanto in ambito penale, non potendosi arbitrariamente estendere l’efficacia di una norma processuale penale, posta a garanzia dei diritti di difesa in quella sede, a dominii processuali diversi, come quello tributario, dotato di regole autonome. Ebbene, tale dottrina poggia sulla circostanza che regola propria del diritto tributario è quella desumibile dall’art. 63, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972, in materia IVA., e dall’art. 33, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973, in materia di imposte sui redditi, che prevede la libera circolazione di documenti, dati e notizie, acquisiti, direttamente o riferiti ed ottenuti dalle altre Forze di polizia, nell’esercizio dei poteri di polizia giudiziaria, con l’unica necessità di una previa autorizzazione del Pubblico Ministero, autorizzazione che, come pure chiarito dalla Cassazione, è posta unicamente a tutela dell’integrità e della riservatezza delle indagini penali e non già dei soggetti coinvolti, con la conseguenza che la sua eventuale mancanza non rende inutilizzabili in campo tributario i dati trasmessi (in tal senso, ex multis, Cass. civ., Sez. V, Sent. n. 2916 del 7 febbraio 2013; Cass. civ., Sez. V, Sent. n. 4306 del 23 febbraio 2010). Né la necessità, né la proporzionalità della misura, né le modalità di trattamento successivo del dato derivante dalle intercettazioni (ad es. limiti temporali e modalità di distruzione) sono sindacabili dinanzi al giudice tributario. Ed infatti, si considera, in una sorta di automatismo, che le garanzie poste a presidio del giudizio penale soddisfino tali esigenze, e che non sia dunque sindacabile dinanzi al giudice tributario la tutela del diritto alla riservatezza degli individui contro cui sono utilizzate.

Per di più, secondo la Corte di Cassazione, non ponendo le richiamate norme tributarie limiti circa la trasmissione degli atti acquisiti in sede di indagini giudiziarie e, più precisamente, una specifica ipotesi di inutilizzabilità degli elementi acquisiti irritualmente, un atto legittimamente assunto in sede penale e trasmesso all’amministrazione tributaria costituisce sempre indizio nel processo tributario, ancorché acquisito in modo irrituale, ed il giudicante di merito è tenuto a prenderlo in considerazione, pro o contro il fisco, nel quadro delle complessive acquisizioni processuali, esclusi i casi in cui venga in discussione la tutela dei diritti fondamentali di rango costituzionale, come l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio (cfr. Cass. Civ., Sez. V, Sent. n. 32185 del 10 dicembre 2019; Cass. Civ. Sez. V, Sent. n. 28060 del 24 novembre 2017; Cass. civ., Ord. n. 673 del 15 gennaio 2019; Cass. civ., Sez. V, Sent. n. 31243 del 29 novembre 2019).

Tale impostazione, che di fatto esclude qualsiasi sindacato del giudice tributario circa la legittimità delle modalità di acquisizione e di trattamento del dato probatorio e lo confina esclusivamente alla valutazione della sua idoneità dimostrativa, sembra dunque porsi in tensione con quanto stabilito dalla Corte EDU, non essendo richiesto uno specifico presidio sulla trasmissione dei dati alle autorità amministrative diverso da quello relativo alla loro acquisizione nel giudizio penale, né ammesso – in base a quanto stabilito ratione temporis dalla Corte di Cassazione – un rimedio giurisdizionale efficace.

Tuttavia, si può ragionare se, quanto meno con riferimento a quest’ultimo profilo, sia possibile colmare il deficit di garanzie tra ordinamento interno e giurisprudenza CEDU grazie alla profonda revisione dello Statuto dei diritti del contribuente operato dalla riforma tributaria. Ed infatti, mentre la giurisprudenza di legittimità dianzi esaminata rifletteva un ordinamento tributario in cui non esisteva una sanzione di inutilizzabilità della prova acquisita in violazione di legge al pari di quella prevista in sede processual-penalistica ex art. 191 c.p.p., di contro l’art. 7-quinquies introdotto all’interno dello Statuto dei diritti del contribuente ad opera del D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 219 ha fissato il principio di inutilizzabilità tout court, in sede amministrativa e giudiziale, della prova acquisita in violazione di legge, superando quella soluzione restrittiva della giurisprudenza di legittimità secondo cui tale sanzione si realizzava solo nell’ipotesi estrema di violazione di diritti costituzionalmente tutelati come “inviolabili”.
Collocandosi in questa prospettiva può, dunque, sostenersi che la circostanza che le prove derivanti da intercettazioni che non siano state trasmesse e trattate in conformità a quanto stabilito dalla Corte EDU con riferimento all’art. 8 della Convenzione rilevi anch’essa come “violazione di legge”, con la conseguenza che l’inutilizzabilità potrebbe essere dunque rilevata direttamente dal giudice tributario (ove di ciò investito, naturalmente, con i mezzi di ricorso).

Resta però il dubbio se, anche laddove si consideri assicurato un efficace rimedio contro le macroscopiche intromissioni rispetto alla vita privata dei contribuenti, l’Italia possa essere comunque chiamata a subire una nuova, severa, censura da parte dei giudici europei a causa dell’arretratezza del sistema di tutela per ciò che concerne il trattamento dei dati delle intercettazioni e le cautele che la gestione di tali dati impone alla luce della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

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*Vittorio Giordano e Marianna De Michele, Giordano-Merolle – Studio Legale Tributario