Uso indebito di carte di credito intestate a terzi: irrilevante il consenso del titolare
La Suprema corte con la sentenza n. 18609 interviene sulla operatività della causa di giustificazione
Uso indebito di carte di credito: è irrilevante il consenso dell’avente diritto. Anche qualora l’utilizzo dello strumento di pagamento o prelievo da parte di terzi sia stato delegato dal titolare, non opera la causa di giustificazione ex articolo 50 del Cp perché il reato di cui all’articolo 493-ter del Cp ha natura plurioffensiva, tutelando non solo il patrimonio personale della persona offesa, ma anche gli interessi pubblici alla sicurezza delle transazioni commerciali e alla fiducia nell’utilizzazione di tali strumenti da parte dei consociati. Così la sezione II penale della Suprema corte con la sentenza n. 18609/2021, depositata il 12 maggio scorso, che ha rigettato il ricorso per cassazione di un imputato condannato in appello – in riforma della sentenza assolutoria di primo grado – per avere indebitamente utilizzato, in concorso con altro soggetto, una carta di credito intestata a terzi per eseguire ripetuti prelievi di carburante da un’area di servizio con apposite taniche, poi riposte nel veicolo nella loro disponibilità.
La vicenda
Nella specie, è stata ritenuta ininfluente la provata esistenza di ragioni di debito del titolare della carta di credito nei confronti del coimputato – anch’egli condannato in appello – cui la tessera stessa era stata consegnata affinché eseguisse il prelievo della somma oggetto dell’obbligazione. Per le modalità di utilizzo dello strumento di pagamento (in orario notturno, con prelievi in rapida successione e per un ammontare superiore all’indicato debito) i giudici d’appello avevano escluso il consenso dell’avente diritto. Consenso che – cadenza oggi la Cassazione – resta comunque irrilevante, trattandosi di fattispecie non scriminabile ex articolo 50 del Cp: difatti la corretta lettura dell’oggettività giuridica del reato in contestazione – già previsto dall’articolo 55, comma 9, del Dlgs n. 231/2007 e poi trasfuso nel Codice penale tra i delitti di falso sotto il novello articolo 493-ter – porta ad escludere l’operatività dell’esimente del consenso dell’avente diritto rispetto all’impiego da parte di terzi dello strumento di pagamento o prelievo, quand’anche in qualche misura autorizzato dal titolare della carta di credito.
L’inoperatività della scriminante del consenso dell’avente diritto
Come noto, la causa di giustificazione del consenso dell’avente diritto disciplinata dall’articolo 50 del Cp richiede che il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice rientri nella categoria dei diritti disponibili, rispetto ai quali il titolare del diritto sia in grado di rinunziarvi; diversamente, se si verte in ipotesi di diritti che proteggono beni di interesse collettivo, la causa di giustificazione non può operare.
Questo principio di diritto – ribadito oggi dalla Suprema corte, che lo ha declinato per la prima volta al delitto in disamina – è stato ripetutamente affermato in relazione ai delitti contro la pubblica amministrazione (in tema di peculato: Cassazione, Sezioni Unite penali, n. 19054/2013, Vattani, Ced 255298; in tema di esercizio abusivo della professione, in cui non assume rilievo la gratuità della prestazione professionale e non produce effetto esimente il consenso del destinatario della prestazione: Sezione VI penale, n. 11493/2014, Tosto, Ced 259492) e ai delitti in tema di tutela dell’economia pubblica (con riguardo al reato di frode in commercio: Sezione VI penale, n. 8266/1981, Ciccionesi, Ced 150203).
Più direttamente rispetto alla sistematica del delitto in esame, il principio è stato affermato da risalente giurisprudenza anche in relazione ai delitti di falso (così per il delitto di false comunicazioni sociali «che può ledere interessi eterogenei, sia interni che esterni al rapporto sociale restrittivamente inteso»: Sezione V penale, n. 3416/1981, Rigoni, Ced 148429; ovvero per il delitto di falsità in cambiali, rispetto al quale è evidente l’interesse della collettività alla sicurezza della circolazione del titolo di credito: Sezione V penale, n. 371/1980, Scattolin, Ced 143865; Id., n. 12392/1978 Santambrogio, Ced 140198; Id., n. 7602/1975, Minervino, Ced 130527; ma anche per il previgente delitto di falso in scrittura privata, considerata la compromissione della fede pubblica per effetto dell’utilizzo della scrittura contraffatta: Id., n. 30149/2015, Pirovano, Ced 265305; Id., n. 16328/2009, Livi, Ced 243342; Sezione II penale, n. 42790/2003, Del Miglio, Ced 227615).
La natura plurioffensiva del reato di cui all’articolo 493-bis Cp
Questa stessa chiave interpretativa – argomenta la sentenza in commento – trova un significativo riscontro nella natura della fattispecie incriminante l’uso indebito di carte di credito e di pagamento, pacificamente diretta alla tutela non solo del patrimonio personale del titolare dello strumento di pagamento o prelievo (Sezione VI penale, n. 29821/2012, Battigaglia, Ced 253175), ma anche degli interessi pubblici alla sicurezza delle transazioni commerciali e alla fiducia nell’utilizzazione da parte dei consociati di quegli strumenti («interessi legati segnata mente all’esigenza di prevenire, di fronte ad una sempre più ampia diffusione delle carte di credito e dei documenti similari, il pregiudizio che l’indebita disponibilità dei medesimi è in grado di arrecare alla sicurezza e speditezza del traffico giuridico e, di riflesso, alla “fiducia” che in essi ripone il sistema economico e finanziario»: Corte costituzionale n. 302/2000); per tale ragione si è affermato che «la norma incriminatrice mira, in positivo, a presidiare il regolare e sicuro svolgimento dell’attività finanziaria attraverso mezzi sostitutivi del contante, ormai largamente penetrati nel tessuto economico», con la conseguenza che «è giocoforza ritenere che le condotte da essa represse assumano - come del resto riconosciuto anche dalla giurisprudenza di legittimità in sede di analisi dei rapporti tra la fattispecie criminosa in questione ed i reati di truffa e di ricettazione - una dimensione lesiva che comunque trascende il mero patrimonio individuale, per estendersi, in modo più o meno diretto, a valori riconducibili agli ambiti categoriali dell’ordine pubblico o economico, che dir si voglia, e della fede pubblica» (Corte costituzionale n. 302/2000).
Di qui la – oggi ribadita – natura plurioffensiva del reato in esame (vedi già Sezione II penale, n. 15834/2011, Sonassi, Ced 250516; Id., n. 47135/2019, Lucarelli, Ced 277683, che già avevano desunto da tale caratteristica della fattispecie l’inapplicabilità della causa di non punibilità ex articolo 649 del Cp): che il bene giuridico tutelato non sia solo il patrimonio del titolare della carta di credito è confermato sia dalle finalità perseguita delle leggi speciali con cui era stata introdotta l’originaria incriminazione (ossia il contrasto dei fenomeni di riciclaggio, anche attraverso il controllo dell’utilizzo dei nuovi strumenti elettronici di circolazione del denaro), sia dalla successiva collocazione della previsione incriminatrice in seno al codice penale nell’ambito dei delitti di falso (sub articolo 493-ter del Cp), secondo le indicazioni contenute nella legge di delega n. 103/2017 (articolo 1, comma 85, lettera q), come recepite nel Dlgs n. 21/2018.
Il dictum: la consapevolezza dell’uso indebito della carta
Sotto l’altro correlato profilo dell’elemento soggettivo del reato in contestazione – a dolo specifico di ulteriore offesa («al fine di trarne profitto per sé o per altri») – la Corte regolatrice ha ritenuto altresì immune da censure la gravata sentenza di condanna laddove aveva desunto la consapevolezza dell’uso indebito della carta di credito e il fine di profitto perseguito dalle modalità della condotta e dall’assenza di prova circa un’eventuale autorizzazione da parte del titolare della carta di credito (che – secondo la prospettiva coltivata dall’imputato ricorrente – avrebbe reso sostanzialmente inoffensivo l’uso della carta).
Sul punto la Cassazione pretende che l’esistenza della volontà da parte del titolare della carta di credito all’uso ad opera di terzi debba essere «rigorosamente valutata, al fine di evitare che siano legittimate condotte abusive poste in essere grazie all’apparente autorizzazione del titolare». Se pur non può ignorarsi che l’utilizzo degli strumenti elettronici di pagamento o di prelievo effettuato da persona diversa dal titolare possa costituire evento non infrequente (quando per ragioni di impedimento momentaneo - dovuto a particolari condizioni di fragilità, disabilità, ovvero a ragioni di salute - il titolare non sia in grado di utilizzare lo strumento di pagamento, pur avendone necessità), è necessario che l’eventuale autorizzazione costituisca lo strumento per la realizzazione esclusiva dell’interesse del titolare della carta di credito. In altri termini – come già affermato di precedente arresto (Sezione II penale, n. 17453/2019, Pautasso, Ced 276422) – l’autorizzazione assumerà rilevanza solo nelle ipotesi in cui sia apprezzabile in modo manifesto (attraverso la dimostrazione dei rapporti esistenti tra le parti e delle circostanze in cui sia intervenuta tale autorizzazione) che il terzo utilizzatore dello strumento di pagamento o di prelievo di denaro agisce solo nell’interesse del titolare, eseguendo materialmente le operazioni consentite con l’uso della carta di credito, su disposizione del titolare legittimo.