GiurisprudenzaCivile

Divisione patrimonio soci e società, un tema con ancora molte incertezze

di Nicola Graziano

N. 17

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Ancora una volta la Suprema Corte di Cassazione è chiamata a confrontarsi sulla tematica della estensione del fallimento alla c.d. supersocietà di fatto, ipotesi questa che ricorre nel caso in cui due o più persone (anche giuridiche) danno vita a una società attraverso comportamenti concludenti e cioè senza costituirla secondo le forme e le modalità contemplate dalla legge.

Massima

  • Fallimento delle società - Dichiarazione di fallimento di imprenditore individuale o di società - Successivo accertamento di soci occulti - O di supersocietà - Debiti - Imputabilità alla società occulta - Accertamento - Conseguenze - Prova della inesistenza dell’insolvenza della società - Ammissibilità. (Regio decreto 16 marzo 1942 n. 267, articoli 5 e 147)

    Quando, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale (o di una società), risulti che la relativa impresa è, in realtà, riferibile ad una società di fatto tra il soggetto già fallito e uno o più soci occulti, che possono essere a loro volta altre società o persone fisiche (cosiddetto “supersocietà” di fatto), i debiti assunti (sia pur in nome proprio) dal soggetto già fallito in relazione all’impresa sostanzialmente sociale che ne costituisce l’oggetto sono, in realtà, giuridicamente imputabili alla società occulta. Ma se i debiti assunti (sia pur in nome proprio) dal soggetto (imprenditore individuale o società) già fallito in relazione all’impresa sociale sono, in realtà, giuridicamente imputabili alla società occulta successivamente emersa, l’insolvenza di tale società può essere, allora, senz’altro direttamente desunta dai predetti debiti e dall’impossibilità della stessa di farvi fronte con mezzi normali di pagamento (articolo 5 legge fallimentare). Deriva da quanto precede, pertanto, che nell’ipotesi contemplata dall’articolo 147, comma 5, legge fallimentare, l’insolvenza da prendere in considerazione è quella già accertata nei confronti dell’imprenditore apparentemente individuale (o della società) ma in realtà fallito come socio di una società occulta, perché l’insolvenza della società occulta è la stessa insolvenza dell’imprenditore apparentemente individuale (o della società) già dichiarato fallito La società, al pari dei suoi soci illimitatamente responsabili, può, naturalmente, dimostrare in giudizio, in sede di estensione ai sensi dell’articolo 147, comma 5, legge fallimentare, l’insussistenza dello stato d’insolvenza provando che la stessa è, al contrario, in condizione di far fronte regolarmente e con mezzi normali alle proprie obbligazioni. (M.Fin.)

  • Società e imprese - Società di persone - Partecipazione di una società di capitali - Ammissibilità - Conseguenze - Fallimento dei soci in estensione - Condizioni. (Cc, articoli 2297 e 2361; disposizioni attuazione Cc, articolo 111-duodecies; regio decreto 16 marzo 1942 n. 267, articolo 147; decreto legislativo 9 gennaio 2006 n. 5)

    La riforma del diritto societario ha espressamente consentito la partecipazione, anche di fatto, di una società di capitali ad una società di persone (cd. supersocietà). Gli artt. 2361 Cc e 111-duodecies disposizioni attuazione cc, infatti, hanno inequivocamente previsto che una società di capitali possa assumere la qualità di socio illimitatamente responsabile, tra l’altro, di una società in nome collettivo, pur se irregolare come la società di fatto. Nel medesimo senso, del resto, depone l’articolo 147, comma 1, legge fallimentare, nel testo successivo alla riforma della legge fallimentare, il quale, in coerenza con la predetta opzione normativa, dispone che la sentenza che dichiara il fallimento di una società appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile (e cioè di una società in nome collettivo, di una società in accomandata semplice o di una società in accomandita per azioni) produce anche il fallimento dei soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili, in tal modo ribadendo la possibilità che le società di persone, anche se di mero fatto (cosiddetto “supersocietà” di fatto), abbiano, tra i propri soci illimitatamente responsabili, altre società, anche di capitali, con tutte le implicazioni, ivi compreso il possibile fallimento della società di fatto, cui quella di capitali abbia partecipato, e dei suoi soci illimitatamente responsabili. Deriva da quanto precede, pertanto, che, una volta accertata l’esistenza di una società di fatto e la sua insolvenza, i soci possono essere dichiarati falliti in estensione … di quello della società di fatto, che invece va accertata nei suoi elementi costitutivi e nello status di soggetto imprenditore insolvente, tanto ai sensi dell’art. 147, comma 1, legge fallimentare quanto a norma dell’articolo 147, comma 5, stessa legge (M.Fin.)

  • Società e imprese - Società irregolari e di fatto - Tra persone fisiche e società - Utilizzazione delle stesse come schermo - Irrilevanza - Condizioni. (Cc, articoli 2247, 2253, 2254, 2263 e 2281; regio decreto 16 marzo 1942 n. 267, articolo 147)

    La società di fatto tra una o più persone fisiche e una o più società non è completamente esclusa, almeno nella sua fase costitutiva, dalla successiva utilizzazione delle stesse come schermo per consentire a chi, per un motivo o per l’altro, le controlla di svolgere (o di continuare a svolgere) la propria attività d’impresa, e, per altro verso, che la sussistenza della società di fatto, se non richiede, semplicemente, che le società di capitali che ne fanno parte abbiano, direttamente o indirettamente, gli stessi soci e gli stessi amministratori (trattandosi di fatti compatibili anche con il mero esercizio di un’attività di direzione e coordinamento sulle stesse), può essere nondimeno affermata quando, almeno nella fase costitutiva (e a prescindere dalle forme giuridiche che i relativi atti abbiano assunto), sussistano (o, comunque, siano stati percepiti come tali dai terzi) i seguenti fatti costitutivi e cioè che: a) le stesse società, al pari degli altri compartecipi (persone fisiche o giuridiche, come altre società), abbiano conferito, con decisione che (quale mero atto gestorio proprio dell’organo amministrativo) le società partecipi possono ben assumere attraverso un amministratore di fatto e poi manifestare e dunque condividere a mezzo dei rispettivi organi rappresentativi, in un fondo comune, in termini (di volta in volta) di attribuzione della proprietà (articolo 2254, comma 1, Cc) o del godimento di determinati beni (articoli 2254, comma 2, e 2281 Cc) ovvero di esecuzione della propria opera (articolo 2263, comma 2, Cc), tutto quanto è necessario per il conseguimento dell’oggetto sociale (articolo 2253, comma 2, Cc), se del caso in termini di rinuncia ai propri diritti (come quello di rivalsa in caso di garanzia personale ovvero al compenso per l’attività svolta), allo scopo di trarne, almeno programmaticamente, un vantaggio economico; b) i risultati patrimoniali (positivi e negativi) dell’attività svolta attraverso il fondo formato dai predetti apporti ricadono, in termini di incremento o decremento del valore degli stessi apporti eseguiti, su tutti i partecipi, secondo le regole dagli stessi (anche tacitamente) fissate (anche in proporzione differente rispetto all’entità degli apporti) e, se del caso, altrettanto tacitamente, modificate (con l’unica particolarità che le operazioni sono compiute da chi agisce non già̀ in nome della compagine sociale ma in nome proprio) (M.Fin.)

Ancora una volta la Suprema Corte di Cassazione è chiamata a confrontarsi sulla tematica della estensione del fallimento alla c.d. supersocietà di fatto, ipotesi questa che ricorre nel caso in cui due o più persone (anche giuridiche) danno vita a una società attraverso comportamenti concludenti e cioè senza costituirla secondo le forme e le modalità contemplate dalla legge.

Introduzione al tema

Prima di analizzare nel dettaglio la problematica affrontata dagli Ermellini, giova precisare che perché ricorra una ipotesi ...