Perché non è un replay dei vecchi minimi
I professionisti sono stati oggetto proprio in questo scorcio di legislatura di importanti interventi normativi, che hanno riacceso le ben note polemiche sull’inquadramento del lavoro autonomo nella disciplina lavoristica o in quella delle imprese:
- la legge annuale per il mercato e la concorrenza del 4 agosto 2017, n. 124 ha previsto una nuova disciplina delle società di ingegneria, della professione notarile e delle società tra avvocati che sembra decisamente ispirata a quella delle imprese;
- la legge n. 81 del 22 maggio dello stesso anno, recante «Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale», ha fissato delle regole che sembrano rispondere alla logica diversa del «lavoro autonomo non imprenditoriale»;
- il decreto fiscale n. 148 del 16 ottobre 2017 convertito nella legge 4 dicembre 2017, n. 172, collegato alla manovra di bilancio per il 2018, ha introdotto precise disposizioni in materia di equo compenso degli avvocati e dei professionisti in quanto svolgenti attività di lavoro (art. 19-quaterdecies).
La lettura di tali testi fa emergere una sorta di strabismo dell’ordinamento in tema di lavoro autonomo: da una parte, esiste un filone di produzione legislativa – quello della legge n. 124 del 2017 – fortemente connotato in chiave di promozione della concorrenza, che, come ho detto, è chiaramente legato all’equiparazione professione–impresa; dall’altra, abbiamo delle innovazioni ordinamentali – quelle della legge n. 81 e del decreto fiscale dello stesso anno – nell’ambito delle quali il diritto positivo di rango primario si muove nel presupposto dell’afferenza delle professioni all’alveo lavoristico. Per la legge n. 81, in particolare, lo svolgimento di attività professionali è una delle forme attraverso le quali si manifesta il lavoro ai sensi dell’articolo 35 della Costituzione. È, quindi, un’espressione della personalità sociale dell’uomo, in piena coerenza con la migliore tradizione costituzionalistica italiana.
È evidente che quest’ultima legge ripara ad una disattenzione delle vecchie maggioranze parlamentari verso il comparto del lavoro professionale, che è andata di pari passo con vaste politiche di tutela del lavoro subordinato e con una altrettanto vasta azione di sostegno ed incentivazione del mondo delle imprese. Il legislatore si è ora reso finalmente conto che a nulla rileva che il potere economico che si contrappone al lavoratore sia quello datoriale o quello di un committente, cioè il potere di un soggetto che conferisce un incarico nell’ambito di un contratto d’opera professionale. Ciò che conta è che esiste una situazione di squilibrio tra le due parti del rapporto di lavoro, che giustifica un intervento statale diretto ad evitare fenomeni di sfruttamento e veri e propri abusi in danno del lavoratore, sia esso lavoratore subordinato sia esso «lavoratore autonomo non imprenditoriale». In altri termini, ci si è accorti, seppure in ritardo, che è lavoratore non solo l’operaio o il contadino, ma anche il professionista e che questi non può sempre identificarsi con l’imprenditore.
La legge n. 81, con il comma 4 del suo articolo 3, si è però limitata a rivalutare la figura del professionista quale lavoratore autonomo non imprenditoriale stabilendo l’applicabilità ad essi della disciplina dell’articolo 9 della legge n. 192 del 1998, che vieta l’abuso da parte di un’impresa dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi riguardi, l’impresa cliente o fornitrice.
È solo con il decreto fiscale di novembre che viene espressamente garantito in via legislativa al lavoratore autonomo l’«equo compenso» inteso come «compenso proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e al contenuto e alla caratteristica della prestazione». Con tale decreto si va, perciò, oltre alle forme di tutela fondate esclusivamente sull’abuso di dipendenza economica e, soprattutto, si abbandonano i vecchi schemi ideologici che portavano a ritenere operante l’articolo 36 Costituzione con riferimento al solo paradigma del rapporto di lavoro subordinato.
Si prende definitivamente atto che esiste una norma costituzionale, quella appunto dell’art. 36, che offre una via – più diretta di quella dell’abuso di dipendenza economica – per garantire al professionista il diritto all’equo compenso.
Se, infatti, nella Costituzione il lavoro è protetto in tutte le sue forme ed applicazioni dagli articoli 35 e 36 e se, sempre nella Costituzione, il lavoratore è il termine con cui ci si riferisce a tutti coloro che lavorano e non ad una sola classe sociale, è evidente che anche il professionista ha pieno diritto a un compenso che sia correlato alla qualità e alla quantità del lavoro svolto. Attraverso il decreto fiscale l’affermazione del principio dell’equo compenso si aggiunge, quindi, alla (e, comunque, non nega la) tutela fornita dalla legge n. 81.
L’introduzione del principio dell’equo compenso ha trovato anche una sua ragion d’essere nella gravità della crisi economica e finanziaria iniziata nel 2008, che ha colpito le diverse forme di lavoro non subordinato ed ha posto spesso i professionisti italiani alla mercé di soggetti economicamente forti in grado di imporre clausole vessatorie.
Questa crisi ha prodotto, infatti, nel nostro Paese un netto impoverimento dei professionisti, misurabile attraverso i dati raccolti per finalità istituzionali dalle Casse di assistenza e previdenza cui è obbligatoriamente iscritto chi esercita. Nell’area delle professioni giuridiche, in soli sei anni (dal 2009 al 2015) la flessione dei redditi è stata del 23,82%. Per ingegneri e architetti, la flessione è stata del 20,05%.
In questo contesto ha destato, perciò, una certa sorpresa la sentenza del Consiglio di Stato n. 9614 di quest’anno, la quale, in relazione ad un appalto pubblico di opere di urbanizzazione destinato ad architetti e ingegneri che prevedeva la natura gratuita della prestazione, ha affermato che tale appalto può considerarsi in ogni caso a titolo oneroso dovendosi ritenere che l’utilità economica del potenziale contraente non è finanziaria, ma è insita tutta nel fatto stesso di poter eseguire la prestazione contrattuale.
Non è mancato chi ha criticato la previsione di un diritto dell’equo compenso richiamando la disciplina della concorrenza ed adombrando il rischio che, attraverso l’esplicita attribuzione di un tale diritto, si ripristinino surrettiziamente gli aboliti sistemi tariffari. Questa è l’opinione espressa il 22 novembre di quest’anno dal Garante nella segnalazione da lui inviata ai presidenti delle Camere e al presidente del Consiglio.
Il richiamo che l’Autorità Antitrust fa al sistema tariffario non mi sembra, però, appropriato. Le tariffe limitavano la volontà delle parti sempre e comunque.
Ne conseguiva, quindi, che le norme che ponevano minimi inderogabili si sostituivano imperativamente alle clausole difformi eventualmente concordate tra le parti. Il che era inaccettabile (non solo) sul piano comunitario comportando le tariffe generali restrizioni del mercato con riguardo a qualunque rapporto contrattuale.
La nuova normativa, invece, limita l’applicazione del regime dell’equo compenso alle imprese bancarie ed assicurative e alla Pubblica amministrazione, e cioè ai soggetti che hanno una particolare rilevanza economica e una notevole forza contrattuale, escludendo le piccole e medie imprese individuate dalla raccomandazione 2003/361 della Commissione europea.
In altri termini, il professionista, se ritiene che i compensi non siano sufficientemente remunerativi, può invocare il diritto all’equo compenso solo nei confronti di quei contraenti che hanno concretamente abusato della loro posizione di forza per imporre condizioni vessatorie.
Non mi sembra che la norma, così interpretata, comporti alcuna deroga alle regole della concorrenza e al processo di liberalizzazione e, comunque, sia in grado di far rivivere il generale regime dei minimi tariffari.