Civile

Tribunali civili: le principali sentenze di merito della settimana

La selezione delle pronunce della giustizia civile nel periodo compreso tra il 26 e il 30 settembre 2022

di Giuseppe Cassano

Nel corso di questa settimana le Corti d'Appello sono chiamate a pronunciarsi in tema di garanzia nell'appalto, di preliminare di vendita di cosa altrui, di deliberazione dell'assemblea condominiale e, infine, di assicurazione della responsabilità civile.
Da parte loro i Tribunali trattano dell'usucapione di beni in comunione, di esercizio di attività pericolose, di procedura di sfratto (e clausola compromissoria), di responsabilità aggravata ex articolo 96 c.p.c., di danno non patrimoniale (liquidazione del cosiddetto danno da premorienza) e, infine, di comodato.

APPALTO
Contratto di appalto – Garanzie – Opera compiuta e consegnata
(Cc, articoli 1453, 1667, 1668, 1669)
La Corte d'Appello di Catania si sofferma, in sentenza, in tema di appalto precisando così, in punto di diritto, come la garanzia di cui agli articoli 1667 e 1668 c.c. costituisca un sistema rimediale sostantivo in sé conchiuso, che nell'operare il bilanciamento tra i contrapposti interessi delle parti presuppone, di necessità logica, un'opera compiuta e consegnata.
Prima della consegna, invero, l'opera può essere ancora modificata dall'appaltatore, sicché non può darsi giudizio né sulla sua idoneità alla destinazione concordata, né sull'esistenza in essa di vizi o difformità eliminabili a spese dell'appaltatore o tali da imporre la riduzione proporzionale del prezzo.
Peraltro, le norme in tema di inadempimento del contratto di appalto (articoli 1667, 1668, 1669 c.c.) integrano, ma non escludono i principi generali in tema di inadempimento contrattuale, che sono applicabili quando non ricorrano i presupposti delle norme speciali, nel senso che la comune responsabilità dell'appaltatore ex articolo 1453 c.c. e ss. sorge allorquando egli non esegue integralmente l'opera o, se l'ha eseguita, si rifiuta di consegnarla o vi procede con ritardo rispetto al termine di esecuzione pattuito, mentre la differente responsabilità dell'appaltatore per vizi o difformità dell'opera, previste dagli articoli 1667 e 1668 c.c., ricorre quando l'appaltatore abbia consegnato un'opera completa ma affetta da vizi o non conforme all'accordo.
In caso di completamento dell'opera è dunque consentito il solo ricorso alla disciplina della garanzia.
In disparte, infine, il principio per cui la consegna dell'opera non vuol dire accettazione della stessa - in ogni caso qualora l'opera appaltata sia affetta da vizi occulti o non conoscibili perché non apparenti, il termine di prescrizione dell'azione di garanzia, ai sensi dell'articolo 1667, III, c.c. non decorre dalla consegna delle opere bensì dalla scoperta dei vizi, la quale è da ritenersi acquisita dal giorno in cui il committente abbia avuto conoscenza della stessa - gli oneri dell'allegazione e della prova del fondamento dell'eccezione che i lavori siano effettivamente terminati, spettano all'appaltatore.
Corte di Appello di Catania, sezione II, sentenza 28 settembre 2022 n. 1846

VENDITA
Contratto preliminare – Vendita di cosa altrui – Esecuzione della prestazione
(Cc, articoli 1376, 1478, 1479)
Il principio di diritto di cui fa applicazione, al caso concreto oggetto del suo giudizio, la Corte d'Appello di Bari è quello a tenore del quale, nel contratto preliminare di vendita di cosa altrui, la prestazione può essere eseguita, indifferentemente, o con l'acquisto del bene dall'effettivo proprietario da parte del promittente per poi ritrasferirlo al promissario, ovvero attraverso un trasferimento diretto tra l'effettivo proprietario e l'acquirente.
Non vi è ragione, invero, per escludere che la prestazione possa essere eseguita "procurando" il trasferimento del bene direttamente dall'effettivo proprietario, senza necessità di un doppio trapasso; il comma 2 dell'articolo 1478 c.c. menziona l'acquisto che eventualmente compia l'alienante, nel caso di vendita (definitiva) di cosa altrui, ma come una particolare modalità di adempimento, alla quale eccezionalmente riconnette l'effetto di far diventare senz'altro proprietario il compratore.
Né una diversa soluzione può essere adottata per il caso in cui il promissario abbia ignorato, al momento della conclusione del preliminare, la non appartenenza del bene al promittente.
Il disposto dell'articolo 1479 c.c., che consente al compratore in buona fede di chiedere la risoluzione del contratto, è coerente con la natura (di vendita definitiva) del negozio cui si riferisce, destinato, nell'intenzione delle parti, a esplicare quell'immediato effetto traslativo che è stabilito dall'articolo 1376 c.c., ma è impedito dall'altruità della cosa: altruità che invece non incide sul sinallagma instaurato con il contratto preliminare, il quale ha efficacia soltanto obbligatoria, essendo quella reale differita alla stipulazione del definitivo, sicché nessun nocumento, fino alla scadenza del relativo termine, ne deriva per il promissario.
Il contratto preliminare non è più visto come un semplice pactum de contrahendo, ma come un negozio destinato già a realizzare un assetto di interessi prodromico a quello che sarà compiutamente attuato con il definitivo, sicché il suo oggetto è non solo e non tanto un facere, ma anche e soprattutto un sia pure futuro dare: la trasmissione della proprietà, che costituisce il risultato pratico avuto di mira dai contraenti.
Se il bene già appartiene al promittente, i due aspetti coincidono, pur senza confondersi, ma nel caso dell'altruità rimangono distinti, appunto perché lo scopo può essere raggiunto anche mediante il trasferimento diretto della cosa dal terzo al promissario, il quale ottiene comunque ciò che gli era dovuto, indipendentemente dall'essere stato o non a conoscenza della non appartenenza della cosa a chi si era obbligato ad alienargliela.
Corte di Appello di Bari, sezione II, sentenza 28 settembre 2022 n. 1432

CONDOMINIO
Contributi condominiali – Riscossione – Opposizione a decreto ingiuntivo
(Cc, articoli 1130, 1137)
Osserva l'adita Corte d'Appello di Lecce come, nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali, il Giudice possa sindacare sia la nullità dedotta dalla parte, o rilevata d'ufficio, della deliberazione assembleare posta a fondamento dell'ingiunzione, sia l'annullabilità di tale deliberazione, a condizione che quest'ultima sia dedotta in via d'azione, mediante apposita domanda riconvenzionale di annullamento contenuta nell'atto di citazione, ai sensi dell'articoilo 1137, II, c.c., nel termine perentorio ivi previsto, e non in via di eccezione; ne consegue l'inammissibilità, rilevabile d'ufficio, dell'eccezione con la quale l'opponente deduca solo l'annullabilità della deliberazione assembleare posta a fondamento dell'ingiunzione senza chiedere una pronuncia di annullamento.
Con la precisazione che, da un lato, sono nulle le delibere dell'assemblea condominiale prive degli elementi essenziali, con oggetto impossibile o illecito, con oggetto non ricompreso nelle competenze dell'assemblea, incidenti su diritti individuali o sulla proprietà esclusiva di un condomino, dall'altro lato sono annullabili quelle affette da vizi relativi alla regolare costituzione dell'assemblea, adottate con maggioranze inferiori a quelle prescritte, affette da vizi formali in ordine al procedimento di convocazione e/o informazione dell'assemblea, affette genericamente da irregolarità nel procedimento di convocazione.
La nullità di una deliberazione dell'assemblea condominiale comporta che la stessa, a differenza delle ipotesi di annullabilità, non implichi la necessità di tempestiva impugnazione nel termine di trenta giorni previsto dall'articoilo 1137 c.c..
Una deliberazione nulla non può, pertanto, finchè (o perchè) non impugnata, ritenersi valida ed efficace nei confronti di tutti i partecipanti al condominio, come si afferma per le deliberazioni soltanto annullabili.
La nullità della deliberazione assembleare costituisce, perciò, fatto ostativo all'insorgere del potere-dovere dell'amministratore, ex articolo 1130 c.c., n. 1, di darne attuazione, differentemente dalle ipotesi di mera annullabilità, non incidendo questa sul carattere vincolante delle decisioni del collegio dei condomini per l'organo di gestione fino a quando non siano rimosse con pronuncia di accoglimento dell'impugnazione proposta a norma dell'articolo 1137 c.c..
Corte di Appello di Lecce, sezione II, sentenza 29 settembre 2022 n. 989

ASSICURAZIONE
Contratto di assicurazione Rc – Assicurato - Interesse
(Cc, articolo 1917)
Sottolinea in sentenza la Corte d'Appello di Milano come, ai sensi dell'articolo 1917 c.c., il contratto di assicurazione della responsabilità civile con riguardo ad una determinata attività dell'assicurato obbliga l'assicuratore a tenere indenne quest'ultimo di quanto costui è costretto a pagare a terzi a seguito di un fatto colposo a lui addebitato a titolo d'inadempimento.
L'interesse dell'assicurato consiste nel cautelarsi contro il rischio di alterazione negativa del proprio patrimonio complessivamente considerato con la sua reintegrazione attraverso il pagamento, da parte dell'assicuratore, di una somma di danaro pari all'esborso dovuto dall'assicurato.
L'assicuratore, in ossequio al secondo comma della citata disposizione codicistica, può decidere di pagare direttamente al danneggiato, avvisando l'assicurato e deve farlo, se l'assicurato glielo chiede; si tratta di una facoltà che non attiene alla individuazione dei soggetti del rapporto assicurativo, ma alle modalità di esecuzione della prestazione dell'assicuratore, una volta verificatosi l'evento che rende attuale e concreta la sua obbligazione.
L'obbligazione dell'assicuratore (avente ad oggetto il pagamento dell'indennizzo all'assicurato) è poi distinta ed autonoma dall'obbligazione di risarcimento dell'assicurato responsabile nei confronti del danneggiato, sì che, una volta accertato l'obbligo risarcitorio in capo all'assicurato e, con esso, l'esistenza dell'obbligazione indennitaria in capo all'assicuratore, quest'ultimo è tenuto, in esecuzione del contratto concluso (e dunque senza che possa teorizzarsi un arricchimento indebito del creditore), all'adempimento nei confronti del contraente/assicurato, indipendentemente dalla destinazione che questi darà alla somma riscossa, giacché ciò che è tutelato non è il credito del danneggiato, ma l'integrità del patrimonio del danneggiante.
Il tutto fermo restando che l'assicuratore della responsabilità civile convenuto per l'adempimento del contratto che alleghi l'esclusione della garanzia assicurativa non propone un'eccezione in senso proprio, poiché tale allegazione si risolve nella mera contestazione della mancanza di prova del fatto costitutivo della domanda. Ne consegue che l'assicuratore non assume alcun onere probatorio, restando immutato a carico dell'attore l'onere di dimostrare il fatto costitutivo della domanda in tutta la sua estensione.
Corte di Appello di Milano, sezione IV, sentenza 28 settembre 2022 n. 2996

USUCAPIONE
Usucapione – Beni in comunione - Requisiti
(Cc, articoli 1117, 1142, 1158)
Il Tribunale di Ancona, adito in materia di usucapione, afferma in sentenza il principio di diritto a tenore del quale, ai fini del riconoscimento dell'acquisito ai sensi dell'articolo 1158 c.c., il Giudice è tenuto ad effettuare un rigoroso accertamento dei presupposti di legge, rappresentati: - dal possesso del bene accompagnato dall'animus possidendi, ossia dall'intenzione del possessore di esercitare una relazione materiale con il bene configurabile in termini di ius excludendi alios; - dalla continuità del possesso, senza interruzione ("naturale" o "civile"), per almeno vent'anni, salvi i casi di cosiddetta usucapione abbreviata.
Con specifico riferimento ai beni in comunione (nel caso all'esame del Tribunale adito si trattava di una porzione di corte condominiale ex articolo 1117 c.c.), al fine di ritenere sussistente il primo dei menzionati requisiti, non è sufficiente che gli altri comproprietari si siano limitati ad astenersi dall'uso della cosa, né che l'istante abbia compiuto atti di gestione consentiti al singolo proprietario.
Al contrario, è necessario dimostrare che il comproprietario usucapente ne abbia goduto in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui, in modo tale, cioè, da evidenziare, al di fuori di una possibile altrui tolleranza, un'inequivoca volontà di possedere il bene in via esclusiva, impedendo agli altri ogni atto di godimento o di gestione.
Non solo. Operano ancora il principio della presunzione del possesso intermedio (articolo1142 c.c.) secondo cui il possessore attuale, che abbia posseduto in tempo più remoto, si presume che abbia posseduto anche in tempo intermedio. Questa presunzione, nell'ipotesi di usucapione, comporta che il possessore non è tenuto a dimostrare la continuità del possesso, ma è onere della controparte provare l'intervenuta interruzione.
Il possesso deve dunque essere continuo (esplicazione costante della signoria di fatto sul bene manifestata con atti di possesso conformi alla qualità e destinazione della cosa) ed ancora ininterrotto, pacifico (nel caso di possesso acquisito con violenza e clandestinamente i termini per usucapire decorrono dal momento in cui violenza e clandestinità sono cessate) e non equivoco (consistendo, in modo certo e indubbio, nell'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di un altro diritto reale).
Tribunale di Ancona, sezione I, sentenza 27 settembre 2022 n. 1077

RESPONSABILITA' E RISARCIMENTO
Esercizio di attività pericolose – Responsabilità – Onere della prova
(Cc, articolo 2050; Rdl 18 giugno 1931, n. 773)
Il Tribunale di Cosenza sottolinea in sentenza come la disciplina della responsabilità per l'esercizio di attività pericolose dettata dall'articolo 2050 c.c. sia applicabile anche in ipotesi di attività di carattere squisitamente tecnico, come la produzione e fornitura di energia elettrica. Nell'interpretazione e nell'applicazione della disposizione in questione, per "attività pericolose" si intendono, invero, non solo quelle tipizzate e qualificate come tali dal Tulps (Rdl n. 773/1931) o da altre leggi speciali ma, più in generale, tutte quelle attività che comportano la rilevante possibilità del verificarsi dell'evento dannoso per la loro stessa natura e per le caratteristiche dei mezzi usati, la cui suddetta oggettiva pericolosità ha una potenzialità lesiva rilevabile attraverso dati statistici o elementi tecnici di comune esperienza.
Quella ex articolo 2050 c.c. rientra fra le figure di responsabilità oggettiva ponendo a carico del danneggiante la presunzione di colpa, superabile solo con una prova particolarmente rigorosa e cioè con la dimostrazione di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.
Pertanto, per escludere la responsabilità non basta la prova negativa di non aver commesso alcuna violazione delle norme di legge o di comune prudenza, ma occorre quella positiva di aver impiegato ogni cura e misura atta ad impedire l'evento.
Tuttavia, pur versandosi in ipotesi di presunzione di responsabilità e non di presunzione di colpa, essa pur sempre presuppone il previo accertamento dell'esistenza del nesso eziologico tra l'esercizio dell'attività e l'evento dannoso, non potendo il soggetto agente essere investito da una presunzione di responsabilità rispetto ad un evento che non è ad esso riconducibile in alcun modo. La prova incombe sul danneggiato il quale deve dimostrare che tra l'antecedente (esercizio dell'attività pericolosa) e le conseguenze (danno) vi sia un rapporto di sequenza costante, secondo un calcolo di regolarità statistica per cui l'evento appaia come una conseguenza normale dell'antecedente.
Tribunale di Cosenza, sezione II, sentenza 27 settembre 2022 n. 1639

LOCAZIONI
Procedura di sfratto – Clausola arbitrale – Operatività
(Cpc, articoli 657, 658, 665, 806)
Afferma il Tribunale di Brescia che l'articolo 806 c.p.c., sotto la rubrica "controversie arbitrali", stabilisce che le parti possano far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte che non abbiano per oggetto diritti indisponibili e salvo espresso divieto di legge.
Avuto riguardo alla corretta definizione del concetto di "diritti indisponibili" esclude che la clausola arbitrale possa determinare l'improcedibilità della procedura di sfratto.
L'articolo 661 c.p.c. individua infatti senza incertezze il "giudice competente" stabilendo che "quando si intima la licenza o lo sfratto, la citazione a comparire deve farsi inderogabilmente davanti al tribunale del luogo in cui si trova la cosa locata".
Fra le controversie non deferibili ad arbitri rientrano quindi tutte quelle per le quali è prevista la competenza funzionale ed inderogabile del Giudice Ordinario come, in particolare, i procedimenti speciali di convalida ex articolo 657 e 658 c.p.c.; limitatamente peraltro alla prima fase a cognizione sommaria, non sussistendo invece alcuna preclusione a che nella fase successiva a cognizione piena la causa sia decisa nel merito da arbitri.
L'eventuale opposizione alla convalida da parte dell'intimato, determinando l'apertura di una fase processuale a cognizione piena, potrà comportare quindi per la fase di merito l'operatività della clausola compromissoria.
Con la precisazione che l'eccezione nella fase sommaria dell'esistenza di una clausola arbitrale non priva il Giudice competente ad emettere i provvedimenti immediati (ivi compresa, ove ne ricorrano i presupposti, l'ordinanza provvisoria di rilascio ex articolo 665 c.p.c. che appartiene alla prima fase del procedimento di sfratto) ma lo obbliga, una volta chiusa la fase anzidetta, a declinare con sentenza la propria competenza, dichiarando sussistente per il merito quella arbitrale ed incombendo poi alle parti di attivarsi per l'effettivo svolgimento del relativo giudizio.
Tribunale di Brescia, sezione locazioni, sentenza 28 settembre 2022, n. 2331

ABUSO DEL PROCESSO
Responsabilità aggravata ex articolo 96 c.p.c. – Limiti – Condizioni
(Cpc, articolo 96)
Il Tribunale di Bologna si sofferma in sentenza (tra l'altro) sulla corretta esegesi dell'articolo 96, III, c.p.c. che concede al Giudice uno strumento per sanzionare quelle condotte della parte che, comportando un ingiustificato aggravamento del sistema giurisdizionale e un inutile spreco di tempo e di energie da parte del suddetto sistema, concretano un abuso del processo e ledono l'interesse pubblico al buon andamento della giustizia.
Tale strumento non richiede, per essere applicato, alcuna prova del danno subito dalla controparte, bensì soltanto la prova dell'elemento soggettivo della mala fede o colpa grave nella condotta della parte condannata.
Una colpa grave sussiste quando la parte omette di osservare la minima diligenza nella preliminare verifica dei necessari presupposti per la proposizione della domanda giudiziale e/o per la resistenza delle altrui domande, diligenza che dovrebbe consentire di avvedersi dell'infondatezza della propria pretesa o della propria linea difensiva e di prevedere, con giudizio ex ante, le conseguenze dei propri atti.
Non solo. Si evidenzia ancora in sentenza che, secondo una interpretazione meno rigorosa, l'affermazione della responsabilità de qua prescinderebbe dalla sussistente dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, in quanto la condanna ex articolo 96, III, c.p.c., applicabile d'ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex articolo 96, I e II, c.p.c. e con queste cumulabile, volta - con finalità deflattive del contenzioso - alla repressione dell'abuso dello strumento processuale.
Può dirsi, in conclusione, che la disposizione codicistica in esame abbia previsto e disciplinato un'ipotesi di danni punitivi che il Giudice può comminare al fine di realizzare una finalità deflattiva del contenzioso laddove la parte abbia agito, o resistito, in giudizio con mala fede o colpa grave.
Tribunale di Bologna, sezione III, sentenza 29 settembre 2022 n. 2427

RESPONSABILITA' E RISARCIMENTO
Danno non patrimoniale - Danno da premorienza – Calcolo
(Cc, articolo 2059)
Adito in materia di danni da circolazione stradale il Tribunale di Catanzaro si sofferma in sentenza (tra l'altro) sul risarcimento del danno non patrimoniale (articolo 2059 c.c.).
Precisa, in particolare, che in ipotesi di morte del danneggiato in pendenza del giudizio e per cause indipendenti dal fatto illecito subito, il risarcimento del danno non patrimoniale da liquidare in favore degli eredi deve essere calcolato sulla base non della probabile aspettativa di vita del soggetto, bensì sulla durata effettiva di vita dello stesso.
Ricorda, in proposito, come il Tribunale di Milano abbia elaborato le Tabelle per la liquidazione del "danno da premorienza", e come la Suprema Corte abbia ritenuto non corretta l'impostazione delle stesse in quanto non eque non costituendo perciò un utile strumento per la liquidazione del relativo danno.
Fermo restando che si tratta di una liquidazione equitativa, appare preferibile – secondo il Giudice - un sistema di calcolo che sia rispettoso del criterio della proporzionalità.
Ciò significa che il danno da premorienza deve essere calcolato considerando come punto di partenza (dividendo) la somma che sarebbe spettata al danneggiato, in considerazione dell'età e della percentuale di invalidità, se fosse rimasto in vita fino al termine del giudizio; rispetto a tale cifra, assumendo come divisore gli anni di vita residua secondo le aspettative che derivano dalle tabelle dell'Istat, dovrà essere calcolata la cifra dovuta per ogni anno di sopravvivenza, da moltiplicare poi per gli anni di vita effettiva, in modo da pervenire ad un risultato che sia, nei limiti dell'umanamente possibile, maggiormente conforme al criterio dell'equità.
In conclusione, si afferma che: qualora la vittima di un danno alla salute sia deceduta, prima della conclusione del giudizio, per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell'illecito, l'ammontare del risarcimento spettante agli eredi del defunto iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato, e non a quella statisticamente probabile. Il giudice di merito è tenuto a liquidare tale danno seguendo il criterio della proporzionalità, cioè assumendo come punto di partenza il risarcimento spettante, a parità di età e di percentuale di invalidità permanente, alla persona offesa che sia rimasta in vita fino al termine del giudizio, e diminuendo quella somma in proporzione agli anni di vita residua effettivamente vissuti.
Tribunale di Catanzaro, sezione II, sentenza 29 settembre 2022 n. 1380

CONTRATTI
Contratto di comodato – Mancata restituzione del bene – Danni
(Cc, articoli 1808, 1809)
Il Tribunale di Pisa è adito in materia di comodato figura contrattuale che, nel codice civile, si distingue tra comodato precario, per cui può essere sempre chiesta la restituzione dal comodante (articolo 1810 c.c.), e comodato con determinazione di durata, per il quale la restituzione può essere richiesta solo nel caso sopravvenga "un urgente e impreveduto bisogno al comodante" (articolo 1809, II, c.c.).
Il bisogno che giustifica la richiesta del comodante di restituzione del bene viene interpretato dalla giurisprudenza nel senso che, anche se non grave deve essere imprevisto, dunque, sopravvenuto rispetto al momento della stipula del contratto di comodato ed urgente, senza che rilevino bisogni non attuali, né concreti o solo astrattamente ipotizzabili.
Il tutto si correda, poi, con una verifica di proporzionalità ed adeguatezza da parte del Giudice nel comparare le particolari esigenze di tutela del comodatario ed il contrapposto bisogno del comodante, essendo considerata la disposizione del comma 2 dell'articolo 1809 cit. una norma che riequilibra la posizione del comodante ed esclude distorsioni della disciplina negoziale.
L'anticipata riconsegna del bene deve essere, quindi, valutata tenendo conto degli interessi, dei sacrifici e delle aspettative di entrambi i contraenti, sì da trovare la soluzione meglio compatibile con il loro equo contemperamento.
Orbene, in riferimento all'ipotesi della scadenza del termine pattuito in contratto il Tribunale di Pisa osserva che non può dirsi sussistente un danno in re ipsa per il mero fatto della mancata restituzione del bene. E cioè a dire, venuto meno per scadenza del termine convenuto il contratto di comodato, il comodatario che non restituisca il bene diviene occupante sine titulo e il proprietario che agisca per ottenere il risarcimento dei danni deve dimostrare di aver subito una lesione del proprio patrimonio per non averlo potuto godere.
Il nostro ordinamento d'altronde non conosce danni in rebus ipsis, e nessun risarcimento è esigibile se dalla lesione del diritto o dell'interesse non sia derivato un concreto pregiudizio.
Il danno in senso giuridico non può dirsi esistente sol perché sia stato vulnerato un diritto. La lesione del diritto è il presupposto del danno, non il danno in senso giuridico.
Tribunale di Pisa, sentenza 29 settembre 2022 n. 1161

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