Famiglia

Assegno divorzile anche se la rinuncia al lavoro (per dedicarsi alla famiglia) è parziale

La Cassazione, ordinanza n. 27945 depositata oggi, ha chiarito che non è necessario il “sacrificio totale di ogni attività lavorativa” poiché la legge non richiede una dedizione esclusiva

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di Francesco Machina Grifeo

Ai fini dell’attribuzione dell’assegno di divorzio, il giudice deve valutare il “sacrificio professionale” per dedicarsi alla famiglia. Non è però necessario che tale sacrificio “si sostanzi in un abbandono ‘totale’ del lavoro”, né che il patrimonio familiare sia incrementato “esclusivamente” grazie al contributo del coniuge ‘casalingo’. Né tantomeno rilevano le motivazioni che hanno spinto il coniuge a mettere la vita lavorativa in secondo piano. Tutti punti chiariti dalla Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 27945 depositata oggi, che ha accolto il ricorso di una donna che dopo aver lasciato il posto nell’azienda di famiglia, a seguito della separazione dal marito, era rimasta senza assegno.

La Corte di appello le aveva negato il sostegno affermando che mancava la prova che il contributo avesse comportato “serie rinunce ad attività professionali, dipendenti esclusivamente dalla scelta di dedicare maggior tempo ai figli e a lasciare più libero il marito nell’esplicazione della professione medica e di quella parallela di politico”. Inoltre, non era provato che la scelta di lasciare l’incarico di amministratore dell’azienda familiare fosse “forzata dalla necessità di provvedere ai bisogni della famiglia, e non fosse determinata da altre ragioni”. Né infine che l’incremento del patrimonio immobiliare trovasse “esclusiva giustificazione nell’apporto pressoché esclusivo della moglie alla famiglia”.

Di diverso avviso la Suprema corte secondo la quale ciò che va dimostrato “è che il coniuge economicamente più debole abbia sacrificato occasioni lavorative o di crescita professionale per dedicarsi alla famiglia, senza che sia necessario indagare sulle motivazioni strettamente individuali ed eventualmente intime che hanno portato a compiere tale scelta, che, comunque, è stata accettata e, quindi, condivisa dal coniuge”. Non conta dunque se alla base vi fosse l’amore per i figli o il coniuge, oppure la motivazione risiedesse nella volontà di “sfuggire ad un ambiente di lavoro ostile o per infinite altre ragioni”, tutti questi motivi infatti “non rilevano, perché l’assegno mira a compensare lo squilibrio economico conseguente alla scelta di impiegare le proprie energie e attitudini in seno alla famiglia, piuttosto che in attività lavorative, o in occasioni di crescita professionale, produttive di reddito”.

Per la Prima sezione civile va provato che l’ex coniuge abbia effettivamente fornito il suo contributo personale alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio a scapito della carriera. Ma si tratta appunto di un “contributo”. Non può dunque ritenersi che per ottenere l’assegno sia necessario il “sacrificio totale di ogni attività lavorativa” poiché la legge non richiede una dedizione esclusiva. L’entità del sacrificio è, semmai, rilevante ai fini della quantificazione dell’assegno.

In altri termini, non si deve provare di aver abbandonato il lavoro ma assume rilievo il “semplice sacrificio di attività lavorativa o di occasioni professionali come, ad esempio, la scelta di lavorare part time o quella di optare per un lavoro meno remunerativo, che però lascia più tempo per seguire nel quotidiano il coniuge, i figli e la casa, come pure la decisione di rinunciare, per gli stessi motivi, a promozioni, a nuovi incarichi o ad avanzamenti di carriera”.

Non conta dunque, conclude la decisione, il fatto che la richiedente abbia sempre potuto continuare a lavorare, “essendo invece necessaria e sufficiente la dimostrazione del sacrificio economico sopportato per aver rinunciato ad attività lavorative o ad occasioni di crescita professionale al fine di dedicarsi maggiormente alla famiglia”.

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