Famiglia

Divorzio, la scelta del part time riduce l'assegno

Lo ha chiarito la Corte di cassazione, sentenza n. 23318 del 23 agosto 2021, accogliendo con rinvio il ricorso di un ex marito<br/>

di Francesco Machina Grifeo

La scelta di lavorare part time, pur avendo un contratto a tempo indeterminato, può incidere sulla quantificazione dell'assegno di divorzio. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 23318 del 23 agosto 2021, ha così accolto con rinvio uno dei motivi sollevati dall'ex marito (in qualità di controricorrente) a carico del quale era stato posto un assegno di 600 euro in favore della moglie ed un altro di pari importo per la figlia maggiorenne ancora impegnata negli studi.

La quantificazione seguiva la ricostruzione del reddito di entrambi i genitori, tenendo conto del maggior guadagno dell'uomo, colonnello della Guardia di Finanza, che percepiva 4.400 euro mensili contro i 1.400 della moglie, oltre alla complessiva condizione patrimoniale delle parti.

Secondo il ricorrente tuttavia nell'escludere l'adeguatezza dei mezzi economici a disposizione della ex moglie, la sentenza impugnata non aveva tenuto conto della "scelta di lavorare a tempo parziale, e della conseguente possibilità di ottenere emolumenti aggiuntivi attraverso lo svolgimento di un'attività lavorativa a tempo pieno".

Un motivo accolto dalla Prima Sezione civile secondo cui nell'evidenziare lo squilibrio economico la Corte di appello aveva trascurato la circostanza che la ricorrente "pur essendo titolare di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, presta la propria attività a tempo parziale". "Tale circostanza - prosegue la decisione -, idonea ad orientare in senso diverso la decisione, in quanto verosimilmente incidente in misura tutt'altro che trascurabile sul reddito da lavoro della donna, non ha costituito oggetto di specifico riscontro".

La sentenza infatti ha sì accertato che nei primi anni di matrimonio la donna si è dedicata "esclusivamente" alla famiglia, consentendo al coniuge di "fare carriera", ma ha omesso d'individuare il "momento" in cui è maturata la decisione di trovare un'occupazione retribuita e le ragioni di questa scelta, nonché di verificare se la stessa sia stata compiuta in autonomia o concordata tra i coniugi e di stabilire "se l'attività lavorativa sia stata prestata a tempo parziale fin dall'origine".

"Qualora, infatti - prosegue il ragionamento -, la predetta scelta fosse riconducibile alla necessità di far fronte contemporaneamente alle esigenze della famiglia ed all'accudimento dell'unica figlia nata dall'unione, i relativi effetti n on potrebbero non essere tenuti in conto ai fini della determinazione dell'assegno". E questo sotto il duplice profilo del parziale sacrificio della capacità professionale e reddituale della ricorrente e del contributo da lei fornito alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune.

La Corte territoriale ha poi omesso di accertare se, anche alla luce dell'età della donna, la scelta debba considerarsi ormai "irreversibile", oppure se, come sostiene il controricorrente, "la donna sarebbe ancora in grado di incrementare il proprio reddito optando per la prestazione di lavoro a tempo pieno". In quest'ultimo caso, infatti, conclude la Cassazione, "il predetto squilibrio non potrebbe essere considerato come un effetto esclusivo di scelte compiute in costanza di matrimonio, ma risulterebbe almeno in parte riconducibile ad un'autonoma decisione della ricorrente, che, pur essendo libera da impegni familiari, anche per effetto dell'età ormai raggiunta dalla figlia, non intende porre pienamente a frutto la propria capacità di lavoro professionale".

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