I conflitti interpersonali nell'ambiente lavorativo non sono causa di mobbing
La semplice deduzione di situazioni di disagio lavorativo o di conflitto sul luogo di lavoro non è idonea ad individuare gli elementi minimi del mobbing giuridicamente rilevante. Ai fini della configurabilità di tale istituto, infatti, rilevano solo quelle condotte persecutorie e discriminatorie poste in essere sul luogo di lavoro e non invece i normali conflitti interpersonali nell'ambiente lavorativo, causati da antipatia, sfiducia o scarsa stima professionale che non siano caratterizzati dalla volontà di emarginare il lavoratore. A ricordarlo è il Tribunale di Ascoli Piceno con la sentenza 77/2016.
La vicenda - La richiesta di accertamento della condotta mobbizzante del datore di lavoro proveniva da una donna, dipendente di una società e addetta a funzioni di segreteria, la quale era stata licenziata per giustificato motivo oggettivo per la soppressione del suo posto di lavoro, per via della riduzione del personale imposta dalla critica situazione finanziaria dell'azienda e dalla necessità di riorganizzazione degli uffici. La dipendente, oltre alla richiesta di reintegrazione nel posto di lavoro per l'illegittimità del licenziamento, chiedeva al giudice del lavoro anche un risarcimento del danno non patrimoniale provocato, a suo avviso, dai continui demansionamenti cui era stata sottoposta, nonché dai costanti rimproveri che era costretta a subire.
Le motivazioni - Il Tribunale rigetta in toto la domanda della dipendente. In particolare, quanto al mobbing, il giudice marchigiano esclude in capo alla lavoratrice – come confermato dalla relazione del consulente tecnico – la presenza di postumi permanenti valutabili come danno alla integrità psicofisica e ritiene, comunque, che i comportamenti incriminati, ovvero attribuzione di mansioni diverse ma equivalenti e rimproveri, non possano essere ritenuti «vessatori di tale entità da essere qualificati quale mobbing». Dalle testimonianze era emerso, infatti, che la dipendente si trovava a lavorare in un contesto lavorativo a lei ostile che certamente le provocava un forte disagio; tuttavia, i comportamenti incriminati non erano caratterizzati da quell'intento vessatorio o persecutorio che solo giustifica la configurabilità del mobbing. In sostanza – chiosa il Tribunale - «la ricorrenza di un'ipotesi di condotta mobbizzante deve essere esclusa allorquando la valutazione complessiva dell'insieme di circostanze addotte ed accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro».
Tribunale di Ascoli Piceno - Sezione Lavoro - Sentenza 4 marzo 2016 n. 77