Illegittimo il licenziamento del portatore di handicap se supera il comporto
Nota a Corte di Cassazione, Sez. L Civile, Ordinanza 21 dicembre 2023, n. 35747
Il portatore di handicap o comunque con disabilità grave, tale da determinare continue assenze dal lavoro, anche frazionate, può essere legittimamente licenziato per superamento del periodo di comporto solo se il datore di lavoro dimostra di aver adottato tutta una serie di misure e valutazioni adatte a prevenire forme di “discriminazione indiretta” che risulta essere connessa proprio al particolare stato patologico in cui versa il dipendente, soprattutto se tale condizione fisica è nota all’azienda.
Questa è la posizione espressa dalla sentenza della Cassazione 21 dicembre 2023, n. 35747 che si inserisce in un più ampio ragionamento conseguente al recepimento in Italia della Direttiva UE 2000/78 avvenuto con il D.lgs. 216/2003 a proposito dell’attenzione che deve essere riservata nei confronti di quei lavoratori i quali, stante le condizioni fisiche particolarmente debilitanti e uno stato patologico ingravescente, finiscono per essere predisposti a maggiori assenze dal lavoro per malattia e per la sottoposizione a lunghi periodi di cure.
In questo contesto, dunque, si ritiene che il calcolo del periodo di comporto non possa essere identico per tutti i lavoratori, laddove il portatore di handicap (o con disabilità) è già destinatario di una norma con effetto cogente, per la quale il datore di lavoro deve adottare una serie di misure preventive e, in sintesi, riconoscere un comporto prolungato laddove previsto dai contratti collettivi o comunque evitare l’assegnazione a funzioni e mansioni che possano compromettere ulteriormente la sua salute.
La discriminazione indiretta nella giurisprudenza
La questione era stata già presa in consegna dalla giurisprudenza di legittimità che, pochi mesi prima della decisione che abbiamo appena segnalato, aveva ritenuto che il “rischio aggiuntivo di essere assente dal lavoro per malattia di un lavoratore disabile deve essere tenuto in conto nell’assetto dei rispettivi diritti e obblighi in materia, con la conseguenza che la sua obliterazione in concreto, mediante applicazione del periodo di comporto breve come per i lavoratori non disabili, costituisce condotta datoriale indirettamente discriminatoria e perciò vietata” così si legge in Cass. 9095/2023).
Il punto focale, dunque, è rappresentato dal concetto di discriminazione indiretta che può derivare a danno del disabile, nel momento in cui il datore di lavoro non tenga conto della particolare condizione fisica in cui lo stesso versa.
Indizio inequivocabile di tale discriminazione è considerato, per l’appunto, il calcolo del comporto ed il possibile licenziamento del dipendente assente da tempo.
A questo punto, partendo da un dato assodato, ovvero che la nozione di handicap o di disabilità non coincide perfettamente con quella di malattia, è pur vero che la natura e la gravità di patologie plurime, spesso croniche, e ingravescenti nel tempo, possano determinare una difficoltà oggettiva nell’esercizio delle attività lavorative di cui il datore di lavoro deve tenere conto; le assenze per malattia, in questo senso, devono essere distinte se determinate o meno dall’invalidità di cui il lavoratore è portatore e che comporta per questi, evidentemente, un ostacolo alla normale vita di relazione e sociale oltre che a quella interna all’azienda.
Ecco perché il D.lgs. 216/2003 ha introdotto nel nostro ordinamento il concetto di discriminazione indiretta poi così recepita in giurisprudenza: “In tema di licenziamento, costituisce discriminazione indiretta l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile, perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio, apparentemente neutro, del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio” (Cass. 9095/2023).
In breve, applicare l’ordinario periodo di comporto al portatore di handicap o comunque disabile, integra gli estremi di una discriminazione indiretta e, per l’effetto, il licenziamento intimato è da ritenersi illegittimo, con diritto del lavoratore a vedersi reintegrato in servizio.
La necessita’ di accomodamenti ragionevoli
Per altro verso è opportuno rilevare che il datore di lavoro, anche se non pienamente a conoscenza delle ragioni dell’assenza del dipendente (ovvero se le stesse derivino direttamente dallo stato di handicap o disabilità, oppure se si tratta di altro genere di malattia) pur nella libertà di iniziativa economica e privata e quindi pur nel rispetto di quei principi che gli consentono la libera organizzazione dell’azienda, deve – in base alla diligenza e buona fede – individuare “ soluzioni ragionevoli ” che consentano la neutralizzazione o il ridimensionamento di situazioni che possano aggravare le condizioni fisiche del dipendente.
La legge in questi casi parla, infatti, di “accomodamenti ragionevoli” riferendosi con tali termini a quegli interventi che il datore, comunque nel bilanciamento degli interessi in gioco, e quindi anche guardando alla legittima condotta di contrasto all’eccessiva morbilità, deve comunque porre in essere per la tutela del disabile. Si legge in motivazione alla Cassazione richiamata che “…questo non significa che un limite massimo in termini di giorni di assenza per malattia del lavoratore disabile non possa o non debba essere fissato […] Tuttavia, tale legittima finalità [ndr. il contrasto all’eccessiva morbilità] deve essere attuata con mezzi appropriati e necessari, e quindi proporzionati […]”.
Dunque il rischio di non tenere conto dell’eccessiva morbilità del portato di handicap o disabile, resta tutta a carico del datore di lavoro che può contrastare il fenomeno solo con strumenti adeguati, diversi da quelli approntati per gli altri dipendenti: in caso contrario si avrebbe, appunto, discriminazione indiretta.
In tale contesto, per concludere, il licenziamento deve rappresentare l’ultimo stadio all’interno di un percorso ove il lavoratore è stato messo in condizione di rientrare in servizio e di fornire la propria prestazione e nel rispetto di un comporto lungo se previsto dal contratto collettivo applicato.
L’onere della prova
Quanto all’onere della prova, il licenziamento segue le regole consolidate in giurisprudenza ma con alcune precisazioni dettate dalla particolarità del caso.
E così nel giudizio di valutazione circa la natura discriminatoria, o da fatto illecito, del licenziamento per superamento del comporto del portatore di handicap (o del disabile) vige un regime probatorio semplificato, ove risulta oggettiva la discriminazione indiretta per il solo fatto che sia stato intimato il recesso dal rapporto di lavoro; il lavoratore deve limitarsi a dimostrare i fatti da cui possa derivare un trattamento deteriore subito, rispetto agli altri dipendenti (non in analoghe condizioni fisiche), mentre il datore di lavoro dovrà fornire la prova opposta ovvero di aver garantito tutti quegli “ accomodamenti ” di cui si diceva poco sopra, e di non aver simulato – ecco il fatto illecito che può nascondersi – un licenziamento per superamento del comporto al fine, invece, di licenziare un dipendente non più gradito o semplicemente in quanto disabile.
La discriminazione opera in modo oggettivo dunque il datore di lavoro deve fornire delle prove concrete sulla propria condotta, in quanto l’elemento soggettivo (dunque dolo o colpa che sia) possono unicamente aggravare la sua posizione.
In conclusione, il licenziamento del portatore di handicap o disabile, per superamento del comporto, sarà considerato illegittimo tutte le volte in cui non si potrà escludere – con ragionevole certezza – che vi sia stata una forma di discriminazione indiretta o che il datore di lavoro non si sia adoperato per eliminare quegli ostacoli che impediscono una vera parità di trattamento tra tutti i dipendenti.
Prassi dei tribunali e indicazioni operative
Nella prassi dei tribunali sono emerse diverse situazioni che possono, in qualche modo, aiutare il datore di lavoro a prevenire il formarsi delle condizioni per la discriminazione indiretta.
Una parte della casistica si è concentrata sulle vicende relative alla modalità di gestione del comporto, ovvero all’opportunità che il datore di lavoro informi prontamente i lavoratori del periodo di comporto residuo, dell’imminenza di un termine superato il quale si potrebbe procedere al licenziamento e delle clausole contrattuali collettive applicate, ma anche di accordi aziendali, che regolamentano la malattia: questo consente al lavoratore di essere edotto sui propri diritti e su quanto stia rischiando, anche senza una propria diretta volontà.
Parimenti, il datore di lavoro può ritenere valido concordare con il lavoratore un periodo di sospensione dal servizio concordata con il solo scopo di preservare il rapporto di lavoro, nei limiti comunque consentiti dalla legge.
Un ulteriore strumento che emerge dalla prassi dei tribunali è quello relativo all’utilizzo della contrattazione aziendale per la modifica, migliorativa, della disciplina sulla malattia con il riconoscimento di un comporto più lungo per i lavoratori portatori di handicap (o disabilità) o, più semplicemente, con il riconoscimento di un welfare aziendale ad hoc per questo tipo di circostanze. L’apertura di un confronto sindacale, o comunque con la popolazione aziendale, consente di arrivare all’applicazione di misure per il superamento della disparità di trattamento.
Cosa non fare per evitare la discriminazione indiretta?
Certamente adottare una serie di misure nei confronti del lavoratore disabile come trasferimenti di sede, riduzione non concordata delle mansioni o l’assegnazione a mansioni usuranti, rappresentano un chiaro esempio di ciò che non andrebbe fatto per evitare di trovarsi in una situazione di discriminazione indiretta. Teniamo a mente che ogni condotta datoriale che in qualunque modo, appunto anche indiretto, è destinata ad incidere sulla salute del lavoratore, può essere validamente valutata come illegittima e perfino prodromica a quella malattia da cui è disceso il supermento del comporto.
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*A cura dell’Avv. Marco Proietti – Foro di Roma