Civile

Iragionevole durata, no all’equo indennizzo per chi va contro la giurisprudenza

La Cassazione, ordinanza n. 10909/2024, ha respinto il ricorso degli eredi di un invalido di guerra estendendo il concetto di “mala fede”

di Francesco Machina Grifeo

Più difficile il riconoscimento dell’equa riparazione per l’eccessiva durata del processo. La Cassazione, ordinanza n. 10909/2024, infatti, estende la “mala fede”, che fa perdere al ricorrente il diritto al giusto ristoro, anche alle iniziative giudiziarie contrarie alla giurisprudenza consolidata. È netta la presa di posizione della Seconda sezione civile che equipara la cattiva fede al tentativo di cambiare la giurisprudenza dominante.

Il caso era quello di un uomo che aveva visto rigettata la sua domanda di equo indennizzo per la durata non ragionevole di un processo contabile in materia di trattamento pensionistico privilegiato, promosso nel luglio 1967 e proseguito dalla erede, attuale ricorrente, nel settembre 2007.

La Corte d’appello di Napoli aveva ritenuto applicabile l’ipotesi di esclusione del diritto all’indennizzo (art. 2, comma 2-quinquies, lettera a) della l. n. 89 del 2001, come modificato dalla l. n. 208 del 2015) in quanto la pensione riconosciuta doveva ritenersi “congrua”, non erano state “allegate prove a sostegno della pretesa” e il quadro clinico “non giustificava un più alto livello pensionistico”.

Secondo la ricorrente invece “non vi era stato alcun abuso” considerato che lo scopo era “conseguire un beneficio assistenziale a causa della presenza di una grave invalidità di guerra” e che non era stato accertato “l’elemento soggettivo della “consapevolezza della infondatezza” della pretesa.

La Cassazione ricorda che la legge esclude l’indennizzo in favore di chi abbia agito o resistito in giudizio consapevole dell’infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande e difese. Il patema d’animo derivante dalla situazione di incertezza per l’esito della causa, si legge nella decisione, “è perciò da escludersi non solo ogni qualvolta la parte rimasta soccombente abbia proposto una lite temeraria, difettando in questi casi la stessa condizione soggettiva di incertezza sin dal momento dell’instaurazione del giudizio, ma anche per il periodo comunque conseguente alla consapevolezza dell’infondatezza delle proprie pretese che sia sopravvenuta dopo che la durata del processo abbia superato il termine di durata ragionevole (Cass. n. 2020 del 2023)”.

Per la Suprema corte la parte non aveva dedotto elementi tali da giustificare la richiesta di modifica degli importi pensionistici e dunque correttamente il giudice di merito ne aveva desunto “in fatto la consapevolezza, in capo ai ricorrenti, che la loro domanda era insuscettibile di arrecare pregiudizio per la protrazione del processo oltre il limite della ragionevole durata”.

“Perché la parte possa dirsi consapevole della infondatezza delle proprie domande o difese (agli effetti del comma 2-quinquies, lettera a), dell’art. 2, legge n. 89/2001) – chiarisce la Suprema corte - non è necessario l’accertamento della mala fede, essendo sufficiente verificare la carenza di quella pur minima diligenza che le avrebbe consentito di rendersi conto immediatamente di tale assoluta infondatezza, e che, ad esempio, può desumersi dalla contrarietà dell’iniziativa giudiziaria alla giurisprudenza consolidata”.

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