Società

L'insolvenza ai tempi del Covid-19: sopravvenienza pandemica e rinegoziazione

Le parti di un contratto reso squilibrato dalla pandemia hanno il dovere di rinegoziarne il contenuto per ricondurre le prestazioni all'originario equilibrio

di Rossana Mininno


L'attuale (e perdurante) fase di emergenza sanitaria, legata all'epidemia da Covid-19, oltre a costituire una grave minaccia - a livello mondiale - per la salute pubblica, ha provocato un grave shock per le economie di tutti i Paesi coinvolti, inducendo i Governi dei vari Stati alla (reiterata) imposizione di misure di contenimento.

Con specifico riguardo alle attività commerciali le restrizioni hanno comportato per le imprese consistenti perdite di fatturato, le quali hanno gravemente inciso - e continuano a incidere - sul livello di solvibilità degli imprenditori.

L'Ufficio del massimario e del ruolo della Suprema Corte di cassazione ha, recentemente, divulgato una relazione tematica (n. 56 datata 8 luglio 2020), mediante la quale ha approfondito le "Novità normative sostanziali del diritto "emergenziale" anti-Covid 19 in ambito contrattuale e concorsuale", rilevando in primis che «[n]el cimentarsi con le ripercussioni della pandemia sull'universo delle imprese e dei debitori civili, il Governo italiano ha fatto ricorso a più riprese allo strumento del decreto-legge […] Sul piano del diritto sostanziale, ne è venuta fuori una trama fitta di norme emergenziali e transitorie, tese, nel complesso, ora a sterilizzare alcune disposizioni di diritto societario e concorsuale avvertite come stridenti rispetto alla specialità della crisi, ora a concedere moratorie generalizzate, ora, infine, a congelare la situazione».

Con specifico riferimento alla fase esecutiva dei contratti sinallagmatici l'Ufficio del massimario si è soffermato sulle seguenti «problematiche interconnesse: quella della gestione delle sopravvenienze perturbative dell'equilibrio originario delle prestazioni contrattuali; quella dei correlati rimedi di natura legale e convenzionale».

Come osservato, le misure di contenimento imposte dal Governo «hanno potuto sbilanciare, in via definitiva, l'economia del negozio, vuoi impegnando ultra vires una parte nell'esecuzione delle prestazioni che la gravano, vuoi impedendole di trarre dal rapporto le utilità in considerazione delle quali il contratto è stato concluso».

Il punctum dolens attiene ai rimedi a disposizione delle parti di contratti resi squilibrati dalla pandemia per ricostituire il rapporto di scambio consustanziale alle originarie pattuizioni intercorse e ricondurre le prestazioni all'originario equilibrio.

La questione rileva, in particolare, con riferimento ai contratti di locazione a uso non abitativo, potendo il prolungato inadempimento del conduttore-imprenditore - imputabile alle conseguenze, in termini economici, delle misure di contenimento imposte ex lege - assurgere a indice di insolvenza, di per sé idonea, in caso di irreversibilità e al ricorrere dei requisiti declinati dalla legge fallimentare, a legittimare il locatore alla proposizione dell'istanza di fallimento.

La gestione degli effetti della sopravvenienza pandemica si pone, pertanto, come imprescindibile al fine di sterilizzare gli effetti potenzialmente rivenienti dall'inadempimento del conduttore-imprenditore.

Nel diritto dei contratti con il termine ‘sopravvenienza' si intende una circostanza sopravvenuta alla conclusione del contratto che, pur non impedendone in toto l'esecuzione, incide sul programma contrattuale, perturbando l'originario equilibrio delle prestazioni contrattuali (ovvero quello esistente nella fase genetica del rapporto) e rendendo l'esecuzione stessa difficoltosa.

Dal punto di vista ontologico la sopravvenienza riguarda, segnatamente, i contratti a esecuzione continuata o periodica (c.d. contratti di durata), nonché i contratti a esecuzione differita.

La sopravvenienza negativa è suscettibile di minare l'equilibrio giuridico ed economico del contratto, comportando l'eccessiva onerosità della prestazione a carico di una delle parti.
Ove i contraenti, in sede di stipulazione del contratto, non abbiano espressamente pattuito una clausola di adeguamento volta a neutralizzare gli effetti di una sopravvenienza negativa si pone il problema di individuare lo strumento rimediale a disposizione del contraente svantaggiato dalla sopravvenienza e finalizzato a impedire che l'altro contraente possa comunque pretendere una prestazione divenuta eccessivamente onerosa per effetto di circostanze che avrebbero dovuto rimanere immutate.

Gli strumenti apprestati dal legislatore del 1942, in deroga al principio di vincolatività del contratto (cfr. art. 1372 c.c.), sono la risoluzione per sopravvenuta impossibilità, totale o parziale, della prestazione (cfr. artt. 1463 e 1464 c.c.) e la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta (cfr. art. 1467 c.c.).

Entrambi gli istituti hanno la finalità di porre rimedio all'intervenuta alterazione - rispettivamente, funzionale ed economica - del sinallagma.

Per quanto attiene alla concreta utilizzabilità dei detti strumenti con riferimento ai contratti resi squilibrati dalla sopravvenienza pandemica l'Ufficio del massimario ha osservato che il rimedio della risoluzione per impossibilità sopravvenuta è difficilmente praticabile in quanto, in linea di principio, invocabile «solo quando l'emergenza epidemiologica rende la prestazione dedotta in giudizio completamente e definitivamente ineseguibile o inottenibile», mentre le obbligazioni pecuniarie «tali non divengono mai, non essendo esposte ad una materiale o giuridica oggettiva impossibilità, ma solo ad una soggettiva inattuabilità, connessa all'indisponibilità o alla penuria dei flussi di cassa».

A ciò è stato aggiunto, quale ulteriore considerazione, che il concetto di impossibilità della prestazione non ricomprende la c.d. impotenza finanziaria, la quale, seppur incolpevole, è priva di «una vis liberatoria del debitore dall'obbligazione pecuniaria».

Anche il secondo strumento è stato ritenuto dall'Ufficio del massimario inadeguato alla soluzione della problematica delle sopravvenienze poiché «riconosce la possibilità di richiedere la revisione del contratto divenuto iniquo solo alla parte che, in teoria, avrebbe meno interesse al riequilibrio, in quanto da esso avvantaggiata».

La norma di cui all'articolo 1467 del codice civile, tuttavia, si appalesa, secondo l'Ufficio del massimario, «dimostrativa di come l'ordinamento privilegi la conservazione del contratto mediante revisione, rispetto alla caducazione del rapporto negoziale».

Nell'ottica ordinamentale - orientata in senso squisitamente conservativo, anziché brutalmente demolitorio - la «terapia» alla riduzione dei fatturati delle attività commerciali «non è la cesura del vincolo negoziale, ma la sospensione, postergazione, riduzione delle obbligazioni che vi sono annesse».

In quest'ottica, secondo l'iter logico-argomentativo seguito dall'Ufficio del massimario, l'esigenza «manutentiva del contratto» è soddisfatta mediante la rinegoziazione del contratto (divenuto) squilibrato, negoziazione che, nell'ipotesi in cui i contraenti non abbiano, in sede di stipulazione del contratto, fissato pattiziamente le modalità di gestione delle sopravvenienze, è da intendersi come oggetto di un dovere specifico a carico delle parti avente la propria fonte legale negli articoli 1175 e 1375 del codice civile, «espressione del principio solidaristico che innerva il nostro sistema».

Le menzionate disposizioni codicistiche contengono il riferimento al concetto di buona fede, con riguardo, rispettivamente, all'attuazione del rapporto obbligatorio da parte del debitore e del creditore e alla fase dell'esecuzione.

La nozione di buona fede richiamata è di tipo oggettivo, da intendersi quale regola di condotta nell'esecuzione del contratto, declinata in termini di dovere di correttezza.
Quest'ultimo, a sua volta, si specifica nei due aspetti della lealtà e della salvaguardia e impone alla parte contraente di comportarsi lealmente e di porre in essere tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari al fine di salvaguardare l'interesse della controparte, nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico (cfr. ex multis Cass. civ., Sez. III, 4 maggio 2009, n. 10182).

Secondo l'Ufficio del massimario, «l a portata sistematica della buona fede oggettiva nella fase esecutiva del contratto ex art. 1375 c.c. assume assoluta centralità, postulando la rinegoziazione come cammino necessitato di adattamento del contratto alle circostanze ed esigenze sopravvenute» e risultando, nell'attuale contesto emergenziale «dilaniato dalla pandemia», suscettibile di assolvere «la funzione di salvaguardare il rapporto economico sottostante al contratto nel rispetto della pianificazione convenzionale».

La rinegoziazione appare l'unica soluzione prospettabile dal punto di vista rimediale con riguardo sia alle prestazioni contrattuali «concretamente interdette dalle misure di contenimento» sia alle prestazioni contrattuali che «si inseriscono nell'ambito di scambi contrassegnati da stagnazioni e rallentamenti gestionali o da aumenti smisurati dei costi di produzione o approvvigionamento di materie e servizi».

L'obbligo di rinegoziazione non si pone, secondo l'Ufficio del massimario, in (insanabile) conflitto con la libertà di autodeterminazione, «ma, al contrario, rispetta l'autonomia negoziale delle parti che un siffatto dovere non abbiano manifestamente escluso: l'obbligo infatti, assecondando l'esigenza cooperativa propria dei contratti di lungo periodo, consente la realizzazione e non la manipolazione della volontà delle parti».

Al fine dell'assolvimento del detto obbligo «la parte tenuta alla rinegoziazione è adempiente se, in presenza dei presupposti che richiedono la revisione del contratto, promuove una trattativa o raccoglie positivamente l'invito di rinegoziare rivoltole dalla controparte e se propone soluzioni riequilibrative che possano ritenersi eque e accettabili alla luce dell'economia del contratto […] Si avrà, per contro, inadempimento se la parte tenuta alla rinegoziazione si oppone in maniera assoluta e ingiustificata ad essa o si limita ad intavolare delle trattative di mera facciata, ma senza alcuna effettiva intenzione di rivedere i termini dell'accordo».

Il rifiuto opposto dalla parte a rinegoziare «si risolve in un comportamento opportunistico che l'ordinamento non può tutelare e tollerare».

Per quanto attiene alla possibilità di un intervento giudiziale in chiave sostitutivo-correttiva, l'Ufficio del massimario ha richiamato l'articolo 2932 del codice civile: «la parte che per inadempimento dell'altra non ottiene il contratto modificativo, cui ha diritto, può chiedere al giudice che lo costituisca con sua sentenza».

Al giudice, in sostanza, «potrebbe essere ascritto il potere di sostituirsi alle parti pronunciando una sentenza che tenga luogo dell'accordo di rinegoziazione non concluso, determinando in tal modo la modifica del contratto originario», fermo restando che «la decisione del giudice non può avvenire sulla scorta di un metro casuale, soggettivo o arbitrario, dovendo calibrarsi su elementi rigorosamente espressi dal medesimo regolamento negoziale».

All'esito dell'ineccepibile iter giuridico-argomentativo seguito, l'Ufficio del massimario ha conclusivamente escluso che l'imposizione del dovere di rinegoziazione possa palesare un «rimedio eccentrico al sistema»: in realtà, dotando la parte «oberata dalla sopravvenienza» del potere di invocare la riduzione a equità del contratto (divenuto) squilibrato si attua una mera «rimodulazione estensiva» di un mezzo già previsto dal diritto dei contratti.

Sulla scia dei chiarimenti forniti e delle soluzioni prospettate dall'Ufficio del massimario si è recentemente inserito il Tribunale di Roma, adito con ricorso cautelare da una società, la quale - avendo stipulato un contratto di locazione a uso commerciale per attività di ristorazione e apposita fideiussione bancaria a garanzia del puntuale e corretto adempimento delle obbligazioni pecuniarie rivenienti da detto contratto e lamentando, a giustificazione del proprio inadempimento nel pagamento dei canoni, una consistente contrazione degli utili a causa dell'interruzione dell'attività di ristorazione in ragione delle misure di contenimento della pandemia imposte dal legislatore - ha domandato al Tribunale di disporre la riduzione del 50% del canone di locazione mensile a decorrere dal mese di aprile 2020 e fino al mese di marzo 2021 o, in subordine, di disporne la sospensione nella stessa misura, nonché di ordinare alla società locatrice di non escutere la fideiussione bancaria.

Il Giudice capitolino ha disposto la riduzione dei canoni di locazione del 40% per i mesi di aprile e maggio 2020 e del 20% per i mesi da giugno 2020 a marzo 2021. Ha, altresì, disposto la sospensione della fideiussione rilasciata a garanzia dell'adempimento delle obbligazioni pecuniarie.

Per pervenire a tale decisum il Tribunale romano ha in primis qualificato «la crisi economica dipesa dalla pandemia Covid e la chiusura forzata delle attività commerciali» come «sopravvenienza nel sostrato fattuale e giuridico che costituisce il presupposto della convenzione negoziale», presupposto consistente, specificamente, in «un impiego dell'immobile per l'effettivo svolgimento di attività produttiva».

Per quanto attiene al piano rimediale il Tribunale ha osservato che lo scioglimento del rapporto negoziale non sempre costituisce la soluzione opzionata da entrambe le parti per pervenire al riequilibrio del contratto, potendo, verosimilmente, verificarsi che una delle parti ambisca alla conservazione del contratto, anziché alla sua caducazione: «l'eventuale risoluzione del contratto per eccessiva sopravvenuta onerosità comporterebbe inevitabilmente la perdita dell'avviamento per l'impresa colpita dall'eccessiva onerosità e la conseguente cessazione dell'attività economica».

Il Giudice capitolino ha, quindi, valorizzato il «dovere generale di buona fede oggettiva (o correttezza) nella fase esecutiva del contratto (art. 1375 c.c.)», facendone discendere che «la parte che riceverebbe uno svantaggio dal protrarsi della esecuzione del contratto alle stesse condizioni pattuite inizialmente deve poter avere la possibilità di rinegoziarne il contenuto».

Il principio di buona fede è stato declinato in termini di fonte integrativa cogente «nei casi in cui si verifichino dei fattori sopravvenuti ed imprevedibili non presi in considerazione dalle parti al momento della stipulazione del rapporto, che sospingono lo squilibrio negoziale oltre l'alea normale del contratto».

Fonte che ha, conclusivamente, legittimato l'intervento sostitutivo-correttivo del Tribunale, il cui decisum si pone come importante precedente giurisprudenziale.

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