Lavoro

La quantificazione del danno per il lavoratore illegittimamente collocato in CIGS, quali parametri in "emergenza COVID – 19"

Quali garanzie soccorrono il lavoratore nella pretesa di una corretta gestione della procedura per l'accesso agli ammortizzatori sociali, una volta venuto meno l'obbligo di attuazione dei criteri di scelta e di rotazione? L'analisi della recente sentenza n. 10377/2021 e una riflessione più ampia sull'attuale contesto

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di Fausto Tarsitano*

La recente pronuncia della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ( Sentenza 20 aprile 2021, n. 10377 ) si è occupata degli effetti del protrarsi arbitrario della sospensione del rapporto di lavoro, per illegittima collocazione in cassa integrazione del dipendente.

La Corte ha ribadito un orientamento, da ritenersi ormai consolidato, secondo cui tale comportamento determina la responsabilità per inadempimento contrattuale del datore di lavoro, riconoscendo il conseguente diritto del lavoratore al risarcimento integrale dei danni subiti, da determinarsi ai sensi dell'art. 1223 c.c., commisurandoli, almeno, all'entità dei emolumenti retributivi che egli avrebbe maturato durante l'intero periodo di inadempimento.

Il caso, relativo alla illegittima collocazione in CIGS (i.e. Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria) di un operaio meccanico, per non essere correlata ad alcuna ragione obiettiva, stante la piena fungibilità professionale ed organizzativa del dipendente rispetto agli altri operai meccanici addetti allo stabilimento della datrice di lavoro, riguarda anche un aspetto legato ai parametri cui ancorare il risarcimento economico, valutandosi l'incidenza del periodo di sospensione per giungere ad una quantificazione del danno in termini equitativi.

I temi trattati ci inducono però ad una riflessione più ampia, legata alla situazione contingente, visto il largo uso che si è fatto degli ammortizzatori sociali negli ultimi mesi, dopo il varo di una normativa di tipo emergenziale per fronteggiare l'ondata pandemica sì da preservare da un lato la situazione occupazionale e dall'altra di gestire – unitamente alla misura del divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo – la mobilità aziendale imposta dalla contrazione di produzione di beni e dall'erogazione di servizi in tantissime realtà produttive.

Con l'intento di ampliare la platea dei beneficiari dei trattamenti di integrazione salariale, il D.L. n.18/2020 ha inciso fortemente, se pure in via temporanea, anche sulle garanzie offerte dalla procedura per la fruizione degli ammortizzatori sociali.

La norma richiamata ha stabilito infatti delle deroghe alla normativa previgente, eliminando o semplificando alcuni dei passaggi caratterizzanti la procedura dettata dal D.Lgs 148 del 2015.Si è, così, consentito l'accesso agli ammortizzatori sociali anche senza l'accordo sindacale, essendo sufficiente l'invio della comunicazione preventiva alle organizzazioni sindacali ed il compimento dell'esame congiunto, che non deve obbligatoriamente concludersi con un verbale di accordo.

Ci si chiede allora se lo stravolgimento, ancorché temporaneo, dell'assetto normativo, che contemporaneamente riguardava anche il blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, possa portare a degli abusi da parte del datore di lavoro e quali siano i parametri per determinare il danno del lavoratore illegittimamente sospeso, nelle ipotesi di domande con causale "emergenza COVID – 19".

Può sostenersi che una limitazione al potere di scelta e individuazione dei meccanismi di rotazione dei lavoratori sottoposti a trattamenti di integrazione salariale permanga anche nel mutato contesto ?

Detto altrimenti, quali garanzie soccorrono il lavoratore nella pretesa di una corretta gestione della procedura per l'accesso agli ammortizzatori sociali, una volta venuto meno l'obbligo di attuazione dei criteri di scelta e di rotazione?

Partiamo dal dato per cui l'applicazione di uno qualsiasi degli ammortizzatori sociali comporta una penalizzazione economica per il lavoratore. Ed allora è compito del datore di lavoro garantire un equa ripartizione del sacrificio economico, attuabile attraverso la rotazione.

Aggiungiamo che spesso, se non sempre, un periodo di prolungata inattività forzata comporta anche una dequalificazione per il lavoratore.

In questi casi il riferimento é alle norme di cui agli artt. 2103 c.c. e 13 della L. n. 300 del 1970 (il cosiddetto Statuto dei Lavoratori), la cui violazione notoriamente comporta la risarcibilità del danno da demansionamento, valutabile anche in via presuntiva ed equitativa, laddove sia dimostrato che il comportamento datoriale sia idoneo a frustrare la specifica professionalità del prestatore d'opera. Quanto sopra al fine di non mortificare il diritto al lavoro sancito dalla nostra Carta costituzionale e la dignità della persona lavoratrice.

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*A cura di Fausto Tarsitano, Counsel di Leexè

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