Leasing traslativo, si applicano le norme sulla vendita a rate
Ai contratti di leasing finanziario di tipo traslativo è applicabile la norma di cui all'articolo 1526 c.c., dettata in tema di risoluzione del contratto di vendita con riserva della proprietà per inadempimento del compratore. Pertanto, se l'utilizzatore è inadempiente, il concedente è tenuto a restituire i canoni ricevuti, salvo il diritto a un equo compenso e previa restituzione del bene. Le parti possono però inserire nel contratto una clausola di irripetibilità dei canoni riscossi, che risulta conforme all'assetto di interessi stabilito dal contratto e non genera alcun ingiustificato squilibrio. Questo è quanto emerge nella sentenza 9642/2018 del Tribunale di Milano.
La vicenda - La controversia ha a oggetto le conseguenze della risoluzione di un contratto di leasing di un macchinario industriale, intervenuta in via stragiudiziale per effetto della decisione della società concedente di avvalersi della clausola risolutiva espressa prevista dal contratto, dopo che l'impresa utilizzatrice aveva deciso di sospendere il pagamento dei canoni a causa di non meglio precisate «vicissitudini imprenditoriali».
La stessa impresa si rivolgeva però all'autorità giudiziaria chiedendo la restituzione dei canoni già pagati, in applicazione dell'articolo 1526 c.c., ovvero la norma, dettata in tema di vendita con riserva di proprietà, che prevede la restituzione da parte del venditore delle rate già pagate, salvo equo compenso.
La società concedente, dal canto suo, si opponeva sottolineando il fatto che il macchinario non era mai stato restituito, difettando così un presupposto per l'applicazione dell'articolo 1526 c.c., e chiedendo il pagamento della clausola penale prevista nel contratto proprio in caso di inadempimento.
Tali censure colgono nel segno. Il Tribunale dà, infatti, ragione alla società concedente e si sofferma sui due aspetti giuridici della vicenda.
La risoluzione nei contratti di leasing traslativo - Innanzitutto, il giudice milanese chiarisce che la richiesta della restituzione dei canoni versati, ex articolo 1526 c.c., non può essere accolta per via della mancanza della restituzione del bene. Pur configurandosi nella fattispecie una ipotesi di leasing traslativo, per cui si applica la norma sulla vendita a rate, difetta il presupposto che consente di richiedere la restituzione dei canoni versati. Per il Tribunale, infatti, «il diritto ad ottenere la restituzione delle rate (qui canoni) versate, imponendo all'altra parte il dovere di restituire le rate riscosse "salvo il diritto a un equo compenso per l'uso della cosa", presuppone l'avvenuta restituzione della cosa ed, invero, in sede di restituzione dei canoni pagati occorre tener conto dell'equo compenso per l'uso, che costituisce un limite alla misura dei canoni da restituire e che può essere determinato solo dopo che il bene sia stato restituito».
In sostanza, precisa il giudice, «l'obbligo di restituzione della cosa è da ritenere fondamentale nell'equilibrio del contratto, perché in tal modo da un lato il concedente, rientrato nel possesso del bene, potrà trarne ulteriori utilità nel prosieguo; dall'altro, solo dopo che la restituzione è avvenuta è possibile determinare l'equo compenso a lui spettante».
La clausola penale - Ciò posto, nel contratto in esame le parti hanno previsto una clausola penale in caso di inadempimento del compratore, che deroga a tale disciplina prevedendo che tutti gli importi già acquisiti restano nelle casse della società concedente. Tale clausola è in linea con l'articolo 1526 comma 2 c.c. che fa salva tale possibilità, salvo la riduzione della penale stessa da parte del giudice qualora ritenuta eccessiva. Ebbene, per il Tribunale tale clausola di irripetibilità dei canoni riscossi è «conforme al contemperamento degli opposti interessi, senza realizzare un ingiustificato arricchimento di un contraente ai danni dell'altro».
Non si verifica, cioè, uno squilibrio in favore del concedente e a svantaggio dell'utilizzatore, posto che «per effetto della clausola penale oggetto di contestazione, la concedente non conseguirebbe nulla di più di quanto avrebbe percepito se il contratto fosse stato regolarmente adempiuto».
Tribunale di Milano – Sezione VI civile – Sentenza 2 ottobre 2018 n. 9642